IL REVISIONISMO E LA PROMOZIONE DELLA PACE
Di Harry Elmer Barnes (1958)[1]
Durante gli ultimi quarant’anni, o giù di lì, il revisionismo è diventato un termine da battaglia. Per i cosiddetti revisionisti, esso significa una ricerca onesta della verità storica e lo sbugiardamento di quei miti ingannevoli che costituiscono una barriera per la pace e la buona volontà delle nazioni. Agli occhi degli anti-revisionisti, questo termine sa di cattiveria, di spirito di vendetta, e di voglia dissacrante di calunniare i benefattori del genere umano.
In realtà, il revisionismo non significa niente di più o di meno che lo sforzo di correggere i giudizi storici alla luce di una quantità di fatti più esauriente, di un clima politico più sereno, e di un atteggiamento più obbiettivo. Tutto questo accade sin dall’epoca in cui Lorenzo Valla (1407-1457) smascherò la falsa “Donazione di Costantino” – che costituiva una delle pietre miliari della rivendicazione papale del potere temporale – quel Lorenzo Valla che in seguito richiamò l’attenzione sui metodi inaffidabili di Tito Livio nel trattare la storia romana antica. In realtà, l’impulso alla revisione storica risale a molto tempo prima del Valla, ed è proseguito nelle epoche successive. Esso è stato utilizzato nella storia americana molto prima che il termine entrasse, in seguito alla Prima Guerra Mondiale, nell’uso comune.
Il revisionismo è stato applicato molto frequentemente ed efficacemente per correggere i giudizi storici sulle guerre perché la verità è sempre la prima vittima della guerra, perchè le interferenze e le distorsioni emotive nelle opere storiche in tempo di guerra sono pesanti, e perché sia l’esigenza che l’opportunità di correggere i miti storici sono evidenti soprattutto in relazione alle guerre.
Il revisionismo venne applicato molti anni fa alla Rivoluzione Americana. A cominciare dagli scritti di uomini come George Louis Beer, venne mostrato che la politica commerciale inglese verso le colonie non fu così dura e selvaggia come era stata dipinta da George Bancroft e da altri esponenti dei primi storici ultra-patriottici. Altri ancora dimostrarono che le misure inglesi imposte alle colonie, dopo la fine della guerra con i francesi e con gli indiani, erano compatibili con il sistema costituzionale inglese. Infine, Clarence W. Alvord evidenziò che l’Inghilterra era più preoccupata del destino della Mississippi Valley di quanto lo fosse per i disordini relativi alla Legge sulla Stampa, al Massacro di Boston, e alla Festa del Tè di Boston.
Anche la guerra del 1812 venne sottoposta ad analoghe puntualizzazioni revisioniste. Henry Adams rivelò che Timothy Pickering e i federalisti estremamente ostili alla guerra esercitarono un ruolo decisivo nell’incoraggiare gli inglesi a continuare la loro oppressiva politica commerciale, una politica che aiutò i “falchi” americani a portare in guerra il paese. Essi falsarono la politica commerciale e navale di Jefferson ad un livello quasi proditorio. Più recentemente, Irving Brant, nella sua importante biografia di Madison, ha mostrato che Madison in realtà non venne spinto in guerra contro le sue personali convinzioni da Clay, da Calhoun e dai “falchi”, ma prese la decisione di fare la guerra in base alle sue convinzioni personali.
La Guerra Messicana è stata trattata dai revisionisti in modo specifico. Per molto tempo, gli storici che cercavano di correggere le passioni belliciste del 1846 criticarono Polk e il partito della guerra come dei guerrafondai irresponsabili, spinti dall’ambizione politica, che piombarono senza giustificazioni su un piccolo paese inerme. Poi, nel 1919, arrivò Justin H. Smith il quale, nel suo The War With Mexico, mostrò che da parte di Santa Ana e dei messicani c’erano state arroganza, ostilità e provocazioni in abbondanza.
“La guerra sbagliata”
Mentre il termine “revisionismo” è stato poco usato in relazione allo svolgimento della guerra vera e propria, le cause della Guerra Civile [americana] hanno costituito il campo di una ricerca e di una messa a punto revisioniste molto più estese, anche rispetto a quanto venne fatto poi riguardo alle cause delle due Guerre Mondiali. Questo divenne chiaro nel 1946 grazie alla straordinaria sintesi, fatta dal prof. Howard K. Beale, degli studi revisionisti sull’avvento della Guerra Civile. Il frutto di questi studi eruditi dimostrò che la Guerra Civile, analogamente alla definizione data dal generale Bradley della Guerra di Corea, fu “la guerra sbagliata, nel posto sbagliato e nel momento sbagliato”. Le teste calde di entrambe le parti portarono alla guerra, quando un giudizioso autocontrollo avrebbe potuto facilmente evitare la catastrofe. Il professor William A. Danning e i suoi studenti della Columbia University applicarono in modo rigoroso il revisionismo al periodo postbellico della Guerra Civile e alle vendicative misure di ricostruzione, pilotate attraverso il Congresso, di Charles Sumner e di Thaddeus Stevens. La loro opinione venne divulgata dal libro The Tragic Era, di Claude Brower.
Gli storici revisionisti affrontarono presto la propaganda riguardante la Guerra Ispano-Americana, che era stata fomentata da Hearst e Pulitzer, e che venne sfruttata nel 1898 dalla fazione favorevole alla guerra presente nel partito repubblicano. James Ford Rhodes dimostrò come McKinley, pur avendo ottenuto il totale assenso degli spagnoli alle sue richieste, nascose al Congresso la loro capitolazione chiedendo la guerra. Ulteriori ricerche hanno rivelato che non vi sono assolutamente prove definitive del fatto che gli spagnoli affondarono la corazzata Maine, e hanno mostrato che Theodore Roosevelt iniziò la guerra in modo decisamente illegale, con un ordine abusivo all’ammiraglio Dewey di attaccare la flotta spagnola a Manila mentre il ministro Long era fuori del suo ufficio. Julius H. Pratt e altri hanno smascherato l’irresponsabilità guerrafondaia dei “falchi” del 1898, “falchi” quali Theodore Roosevelt, Henry Cabot Lodge e Albert J. Beveridge, e hanno individuato la responsabilità primaria dell’ammiraglio Mahan per la filosofia espansionista su cui si fondò l’ascesa dell’imperialismo americano.
Quindi, molto prima che l’Arciduca austriaco venisse assassinato dai congiurati serbi il 28 Giugno del 1914, il revisionismo aveva una storia lunga e significativa ed era stato utilizzato in tutte le guerre importanti in cui gli Stati Uniti erano entrati. Applicato all’estero, alla guerra franco-prussiana, dimostrò che la causa scatenante era da attribuire alla Francia, piuttosto che a Bismarck e ai prussiani. Ma fu la Prima Guerra Mondiale che fece entrareil termine “revisionismo” nell’uso comune. Questo accadde perché molti volevano utilizzare gli studi storici sulle cause della Guerra come base per una revisione del Trattato di Versailles, che era stato redatto in base alla totale accettazione della teoria dell’esclusiva responsabilità austriaco-tedesca per lo scoppio della Guerra Europea all’inizio dell’Agosto del 1914.
A quell’epoca, i nuovi sistemi di comunicazione, il giornalismo di massa e la grande maestria nelle tecniche di propaganda permisero agli antagonisti di eccitare l’opinione pubblica e l’odio di massa come mai in precedenza nella storia delle guerre. Il libro Five Weeks [Cinque settimane], di Jonathan French Scott, rivelò il modo in cui la stampa aveva fomentato gli odi nel Luglio del 1914. L’intensità delle passioni negli Stati Uniti è stata recentemente ricordata in modo notevole da H. C. Peterson in Opponents of War, 1917–1918 [Nemici di guerra, 1917-1918]. Come C. Hartley Grathan, il sottoscritto, e altri ancora fecero notare, gli storici si aggregarono alla propaganda con grande zelo e impetuosità. Venne creduto quasi universalmente che la Germania era interamente responsabile non solo dello scoppio della guerra nel 1914 ma anche dell’entrata in guerra dell’America nell’Aprile del 1917. Chiunque osasse dubitare pubblicamente di questo dogma popolare rischiava guai seri, e Eugene Debs venne fatto mettere in prigione dall’uomo che aveva proclamato che la Guerra era fatta per rendere il mondo più sicuro per la democrazia. Il crimine di Debs fu quello di aver detto che la Guerra aveva una motivazione economica, esattamente quello che lo stesso Wilson aveva dichiarato in un discorso il 5 Settembre del 1919.
Non c’è spazio qui per entrare nel merito degli studi revisionisti sulle cause della Prima Guerra Mondiale. Possiamo solo illustrare la situazione citando qualcuno dei miti più notevoli, e il modo in cui vennero liquidati dai revisionisti.
Il mito del Consiglio della Corona
L’accusa più devastante portata contro la Germania fu che il Kaiser aveva riunito, il 5 Luglio del 1914, un Consiglio della Corona dei principali funzionari di governo, ambasciatori e finanzieri, rivelando loro che stava per gettare l’Europa in guerra, e dicendo di tenersi pronti per il conflitto. I finanzieri avrebbero chiesto due settimane di proroga, per poter chiedere la restituzione dei prestiti e per vendere le obbligazioni. Il Kaiser accolse la richiesta e se ne andò in vacanza il giorno successivo in una crociera molto pubblicizzata. Questa sarebbe stata concepita per dare all’Inghilterra, alla Francia e alla Russia un falso senso di sicurezza mentre la Germania e l’Austria-Ungheria si sarebbero tenute pronte a balzare su un’Europa impreparata e ignara. La prima formulazione completa di quest’accusa apparve nell’Ambassador Morgenthau’s Story, che venne scritta da un ghost–writer come Burton J. Hendrick, un importante giornalista americano.
Il professor Sidney B. Fay, il principale revisionista americano che si è occupato dello scoppio della guerra nel 1914, riuscì a provare dai documenti disponibili che questa leggenda del Consiglio della Corona era un mito completamente inventato. Alcune delle persone che si riteneva fossero presenti alla riunione del Consiglio non erano a Berlino, all’epoca. Il vero atteggiamento del Kaiser riguardo al 5 Luglio fu totalmente diverso da quello dipinto nella leggenda, e non vi fu nessuna manovra finanziaria, come era stato invece insinuato. Ma passò molto tempo prima che venisse rivelato il modo in cui Morgenthau era venuto a conoscenza di questa storia. Egli era conosciuto per essere un uomo d’onore, e neppure i critici più severi della leggenda lo accusarono di aver deliberatamente inventato e diffuso una menzogna.
Molti anni dopo, Paul Schwarz, che era il segretario particolare dell’ambasciatore tedesco a Costantinopoli, il barone Hans von Wangenheim, rivelò i fatti. Von Wangenheim aveva un’amante a Berlino e, durante i primi giorni della crisi del 1914, ella gli chiese di tornare immediatamente a Berlino per definire con lei certe questioni importanti. Egli accettò e, per nascondere alla moglie la vera ragione del suo viaggio, le disse che il Kaiser lo aveva improvvisamente convocato a Berlino. Al suo ritorno, parlò a sua moglie del fantasioso Consiglio della Corona, che si era inventato. Poco dopo questa storia, con sua moglie al fianco, von Wagenheim incontrò Morgenthau, allora ambasciatore americano a Costantinopoli, in un ricevimento diplomatico. Morgenthau aveva sentito del viaggio di von Wagenheim a Berlino e lo spronò a raccontargli quello che era successo. In quelle circostanze, von Wagenheim poteva solo ripetere la leggenda che aveva raccontato a sua moglie. Fino a che punto l’alcol potè allentare il suo riserbo e quanto Morgenthau e Hendrick poterono amplificare quello che von Wagenheim aveva davvero detto a Morgenthau, non si sa e probabilmente non si saprà mai.
Questa storia fantasiosa, inventata di sana pianta, indica la necessità della storiografia revisionista e dimostra fino a che punto degli eventi gravi e tragici possano dipendere dalle invenzioni più lampanti. Poiché il libro di Morgenthau non apparve prima del 1918, il suo racconto del fittizio Consiglio della Corona ebbe una grande influenza alla fine della guerra sulla propaganda Alleata contro la Germania. Venne utilizzato nella campagna di Lloyd George del 1918, che chiedeva l’impiccagione del Kaiser, e dagli artefici più vendicativi del Trattato di Versailles. E’ sicuramente possibile che senza una propaganda del genere questi ultimi non sarebbero riusciti a inserire nel Trattato la clausola della colpevolezza. Poiché gli storici concordano che fu il Trattato di Versailles a spianare la strada alla Seconda Guerra Mondiale, lo sciagurato alibi di von Wagenheim del Luglio del 1914 può aver avuto una qualche relazione diretta con il sacrificio di milioni di vite e con le astronomiche spese di guerra fatte a partire dal 1939, con la possibilità che la conseguenza ultima potrebbe essere lo sterminio di gran parte del genere umano mediante una guerra nucleare.
Un’altra notizia che venne utilizzata per infiammare l’opinione pubblica contro i tedeschi fu la loro invasione del Belgio. La propaganda Alleata presentò questa cosa come la ragione principale per l’entrata in guerra dell’Inghilterra e come la prova definitiva dell’accusa che i tedeschi non rispettavano il diritto internazionale o i diritti delle piccole nazioni. Gli studiosi revisionisti provarono che [anche] gli inglesi e i francesi avevano preso in considerazione per qualche tempo l’idea di invadere il Belgio nell’eventualità di una guerra europea, e che dei funzionari inglesi avevano viaggiato per il Belgio esaminando attentamente il terreno per valutare tale eventualità. Inoltre, i tedeschi si offrirono di rispettare la neutralità del Belgio in cambio della neutralità inglese rispetto alla Guerra. Infine, John Burns, uno dei due membri del Gabinetto inglese che avevano rassegnato le dimissioni quando l’Inghilterra decise di entrare in guerra nel 1914, mi disse personalmente nell’estate del 1927 che la decisione del Gabinetto in favore della guerra era stata presa prima che venisse detta una sola parola sulla questione belga. L’anno seguente, il Memorandum sulle Dimissioni del famoso John Morley, l’altro membro del Gabinetto che si era dimesso nel 1914 per protesta contro la politica di guerra, confermò pienamente la versione di Burns.
I racconti di atrocità
Una terza imputazione fondamentale che produsse odio contro i tedeschi nella Prima Guerra Mondiale fu l’accusa che avevano commesso atrocità contro le popolazioni civili di una brutalità senza paragoni, in particolare in Belgio – in genere vennero accusati di aver mutilato bambini, donne e persone inermi. Si disse che avevano utilizzato i cadaveri dei soldati tedeschi e Alleati per produrre fertilizzanti e sapone, e di essersi comportati in altre circostanze come bestie inumane. Il rinomato pubblicista inglese Lord James Bryce venne indotto a prestare il proprio nome per avvalorare questi racconti di atrocità. Dopo la Guerra, un gran numero di libri vagliarono questi resoconti, in particolare i libri Falsehood in Wartime [Falsità in tempo di guerra] di Sir Arthur Ponsonby, e Atrocity Propaganda di James Morgan Read. La Prima Guerra Mondiale non fu una scampagnata, ma nessuno studioso informato crede più che ci fosse del vero in gran parte delle presunte atrocità, o che i tedeschi furono più colpevoli di altri in fatto di atrocità.
Studiosi e pubblicisti che erano stati ridotti al silenzio durante la guerra cercarono presto di alleggerirsi la coscienza e di dire le cose come stavano, dopo la fine delle ostilità. In realtà, Francis Neilson anticipò molte basilari conclusioni revisioniste nel suo How Diplomats Make War [Come i diplomatici fanno la guerra], che venne pubblicato nel 1915 e che può essere considerato come il primo importante libro revisionista sulle cause della Prima Guerra Mondiale. Il How the War Came [Come è arrivata la guerra] di Lord Loreburn, un aspro atto di accusa contro i diplomatici inglesi, venne pubblicato nello stesso periodo in cui veniva redatto il Trattato di Versailles.
Il primo studioso americano che sfidò la propaganda di guerra fu il professore Sidney B. Fay, dello Smith College, che pubblicò una serie di tre importanti articoli sulla American Historical Review, a cominciare dal Luglio del 1920. Furono questi articoli che suscitarono all’inizio il mio interesse per i fatti in questione. Durante la Guerra, avevo accettato la propaganda; in realtà, ne avevo scritto un po’ anch’io, sia pure di malavoglia. Mentre scrivevo, tra il 1921 e il 1924, alcune recensioni e dei brevi articoli che affrontavano le vere cause della Guerra, iniziai ad essere totalmente coinvolto nella battaglia revisionista quando Herbert Croly, del New Republic, mi spinse a recensire dettagliatamente, nel Marzo del 1924, il libro del professor Charles Downer Hazen, Europe Since 1815 [L’Europa a partire dal 1815]. Questa recensione suscitò una tale polemica che George W. Ochsoakes, direttore del New York Times Current History Magazine, mi spinse a esporre una sintesi delle conclusioni revisioniste sul numero di Maggio del 1924. Fu davvero questo a lanciare la battaglia revisionista negli Stati Uniti.
Anche le più grandi case editrici e i migliori periodici cercarono vogliosamente del materiale revisionista da pubblicare. Le Origins of the World War, del professor Fay, le Roots and Causes of the Wars [Le radici e le cause delle guerre] di J. S. Ewart, e il mio Genesis of the World War, furono i principali libri revisionisti pubblicati nel 1924 negli Stati Uniti da autori americani. I revisionisti americani trovarono degli alleati in Europa: Georges Demartial, Alfred Fabre-Luce, e altri, in Francia; Freidrich Stieve, Maximilian Montgelas, Alfred von Wegerer, Hermann Lutz, e altri, in Germania; e G. P. Gooch, Raymond Beazley, e G. Lowes Dickinson, in Inghilterra. Partendo dalle cause della guerra in Europa nel 1914, altri studiosi, in particolare Charles C. Tansill, Walter Millis, e C. Hartley Grattan, dissero la verità sull’entrata in guerra degli Stati Uniti. Mauritz Hallgren produsse il definitivo atto di accusa contro la diplomazia interventista americana, da Wilson a Roosevelt, nel suo A Tragic Fallacy [Un tragico errore].
All’inizio, la presa di posizione dei revisionisti fu alquanto rischiosa. Il professor Fay non fu in pericolo, perché scrisse su una rivista scientifica che non era letta dal grande pubblico. Ma quando incominciai ad affrontare l’argomento su dei media letti almeno dallo strato intellettuale superiore dell’”uomo della strada”, fu un altro discorso. Ricordo di aver tenuto una conferenza a Trenton, nel New Jersey, agli inizi del Revisionismo, e di essere stato minacciato fisicamente da alcuni fanatici che erano presenti. Essi vennero però intimiditi e dissuasi dal responsabile della serata, un ex governatore del New Jersey molto rispettato. Anche nell’autunno del 1924, un uditorio abbastanza intellettuale a Amherst, nel Massachusetts, divenne turbolento e si calmò solo quando Ray Stannard Baker si dichiarò fondamentalmente d’accordo con le mie osservazioni.
A poco a poco, l’umore del paese cambiò ma all’inizio esso era animato più dal risentimento contro i nostri ex alleati che dall’impatto degli scritti revisionisti. Furono le voci sullo “Zio Shylock” del 1924-27 che cambiarono le carte in tavola. Questa indicazione dell’implicita ingratitudine degli Alleati per il soccorso americano nella Guerra, rese l’opinione pubblica desiderosa di leggere e accettare la verità relativa alle cause, alla condotta, ai meriti, e ai risultati della Prima Guerra Mondiale. Inoltre, con il passare del tempo, le forti emozioni del periodo bellico si raffreddarono. Alla metà degli anni ’30, quando apparve il libro Road to War [La strada verso la guerra] di Walter Millis, venne accolto favorevolmente da una gran massa di lettori americani e fu uno dei libri di maggior successo del decennio. Il revisionismo l’aveva finalmente spuntata.
E’ sicuramente interessante che, nel quadro della violenta ostilità contro il revisionismo che si è manifestata dopo il 1945, sia iniziato uno sforzo preciso, da parte di certi storici e giornalisti, di screditare la letteratura revisionista degli anni 1920-1939, e di ritornare ai miti del 1914-1920. Questa tendenza è stata sfidata e confutata in modo devastante dall’eminente studioso revisionista della Prima Guerra Mondiale Hermann Lutz nel suo libro sull’unità franco-tedesca (1957), che tiene conto dei materiali più recenti sulla questione.
Genesi del termine
Come abbiamo già spiegato brevemente, la letteratura storica che cercò di esporre la verità relativa alle cause della Prima Guerra Mondiale, venne conosciuta con il nome di revisionismo. Avvenne questo perché il Trattato di Versailles era stato redatto in base alla tesi dell’esclusiva responsabilità austro-tedesca per l’avvento della guerra nel 1914. Alla metà degli anni ’20, gli studiosi avevano accertato il fatto che la Russia, la Francia e la Serbia erano più responsabili della Germania e dell’Austria. Quindi, sia dal punto di vista logico che fattuale-materiale, il Trattato doveva essere rivisto secondo i fatti portati alla luce. Non accadde nulla del genere, e nel 1933 entrò in scena Hitler per attuare la revisione del Trattato con la forza, con il risultato di far scoppiare un’altra, più devastante, guerra mondiale nel 1939.
Poiché il revisionismo, a prescindere dal suo contributo alla causa della verità storica, non riuscì a evitare la Seconda Guerra Mondiale, molti hanno guardato allo sforzo di accertare la verità sulle responsabilità della guerra come totalmente inutile dal punto di vista pratico. Ma un verdetto del genere non è definitivo. Se la situazione generale, politica ed economica, in Europa, dal 1920 in poi, non fosse stata così pesante nello scatenare le passioni e nell’inibire il raziocinio, è probabile che il verdetto dei revisionisti sul 1914 avrebbe portato a dei cambiamenti nel Diktat di Versailles. Negli Stati Uniti, meno afflitti da ondate emotive, il revisionismo esercitò un’influenza notevole, tutta a vantaggio della pace. Fu in parte responsabile dei freni imposti alla Francia al tempo dell’invasione della Ruhr, volti ad alleviare il duro sistema dei
risarcimenti, come pure dell’indagine Nye sull’industria degli armamenti e sulle sue nefaste ramificazioni, e della nostra legislazione a favore della neutralità.
Il fatto che, nonostante i molti mesi di potente e irresponsabile propaganda a favore del nostro intervento nella Seconda Guerra Mondiale, oltre l’80% del popolo americano fosse contrario all’intervento ancora alla vigilia di Pearl Harbor, dimostra che l’impatto del revisionismo sull’opinione pubblica americana era stato profondo, costante e salutare. Se il presidente Roosevelt non fosse riuscito a istigare i giapponesi ad attaccare Pear Harbor, la campagna revisionista della fine degli anni ’20 avrebbe potuto salvare gli Stati Uniti dalle tragedie dei primi anni ’40 e dalle calamità – che potrebbero rivelarsi anche più grandi – che sono emerse dal nostro intervento nella Seconda Guerra Mondiale e che ancora permangono sopra le nostre teste.
Il ruolo dei mass media
Molto prima che la Seconda Guerra Mondiale scoppiasse all’inizio del Settembre del 1939 era chiaro che, quando sarebbe arrivata, avrebbe presentato per i revisionisti un problema anche più drammatico e formidabile di quanto non era stato per la Prima Guerra Mondiale. La scena era pronta per una quantità e una varietà di odi mistificatori molto più forti degli anni precedenti il 1914, e la capacità di eccitare le passioni e di diffondere leggende si era nel frattempo notevolmente accresciuta. I molti progressi tecnici del giornalismo, le redazioni dei giornali più nutrite, in particolare di “esperti” di politica estera, e la maggiore importanza data agli affari esteri, tutto rendeva certo che la stampa avrebbe esercitato un ruolo molto più efficace nell’influenzare le masse, rispetto al periodo 1914-18. In realtà, anche nel 1914, come Jonathan F. Scott e Oron J. Hale hanno evidenziato, la stampa fu forse una causa della guerra potente quanto la follia dei capi di stato e dei loro diplomatici. Nel 1939 e da allora in poi, era destinata a esercitare un’influenza anche più potente e malefica.
Le tecniche della propaganda si erano enormemente raffinate ed erano pressoché totalmente prive di qualunque remora morale. I propagandisti, dal 1939 in poi, avevano a loro disposizione non solo quanto era stato appreso durante la Prima Guerra Mondiale – in fatto di menzogne rivolte all’opinione pubblica – ma anche i grandi progressi fatti nelle tecniche di disinformazione a scopo sia civile che militare. Un importante funzionario inglese di intelligence come Sidney Rogerson scrisse persino un libro, pubblicato nel 1938, in cui disse ai suoi compatrioti come trattare gli americani nel caso di una Seconda Guerra Mondiale, avvertendoli che non potevano semplicemente utilizzare i metodi che Sir Gilbert Parker e altri avevano impiegato con tanto successo dal 1914 al 1918 per abbindolare l’opinione pubblica americana. Egli suggerì le nuove leggende e la strategia necessarie. L’anno successivo iniziarono a venire applicate.
Nel 1939 c’era un cumulo di odi arretrati molto più grande a disposizione dei propagandisti. Ma per quanto il Kaiser venisse sbeffeggiato e insultato durante la guerra, era stato tenuto invece in grande considerazione prima del Luglio del 1914. Nel 1913, all’epoca del 25° anniversario della sua ascesa al trono, degli eminenti americani come Theodore Roosevelt, Nicholas Murray Butler e l’ex presidente Taft si prodigarono di elogi nei confronti del Kaiser. Butler disse che se fosse nato negli Stati Uniti, sarebbe arrivato alla casa Bianca senza la formalità di un’elezione, e Taft dichiarò che il Kaiser era il singolo individuo più autorevole a favore della pace del mondo intero. Nel 1939 non c’erano analoghi sentimenti di affetto e di ammirazione nei confronti di Hitler e di Mussolini. Butler aveva, è vero, definito Mussolini il più grande statista del 20° secolo, ma questo fu negli anni ’20. La propaganda inglese contro il Duce durante l’incursione in Etiopia aveva posto fine all’ammirazione della maggior parte degli americani nei suoi confronti. L’odio accumulato nei paesi democratici contro Hitler nel 1939 aveva già superato quello nutrito contro ogni altra figura della storia moderna. I conservatori americani e inglesi odiavano Stalin e i comunisti, e questi ultimi vennero in seguito accomunati alla Germania e a Hitler dopo il Patto russo-tedesco del 1939. Questo odio contro i russi arrivò al calor bianco quando invasero la Polonia orientale nell’autunno del 1939, e la Finlandia nell’inverno successivo. Le differenze razziali e lo spauracchio del colore della pelle resero facile odiare i giapponesi e, dopo l’attacco a Pearl Harbor – a proposito del quale i fatti veri rimasero tabù fino a dopo la Guerra – l’odio per i giapponesi crebbe così tanto che anche importanti ufficiali della Marina americana, come l’ammiraglio Halsey, potevano riferirsi ai giapponesi come a degli antropoidi letteralmente subumani.
Con queste premesse, era ovvio che gli odi potessero imperversare senza “limiti né confini”, per usare l’espressione di Wilson, e che le menzogne potessero nascere e prosperare con voluttà senza nessuno sforzo di controllare i fatti, ammesso che ve ne fossero. Ogni paese importante costituì la sua agenzia ufficiale per ingannare l’opinione pubblica per tutta la durata [della guerra] e la sostenne generosamente con fondi quasi illimitati. Era più che evidente che sarebbe stato un compito sovrumano da parte dei revisionisti lottare con tutto ciò, una volta iniziate le ostilità.
Dopo la Prima Guerra Mondiale, i russi avevano intrapreso i primi passi importanti per inaugurare il revisionismo. I comunisti volevano screditare il regime zarista e accollargli la responsabilità della prima Guerra Mondiale, e così pubblicarono i voluminosi documenti contenenti gli accordi segreti franco-russi dal 1892 al 1914. Questi, insieme a ulteriore materiale francese, dimostrarono che per lo scoppio della guerra nel 1914 erano responsabili principalmente Francia, Russia e Serbia. I documenti russi vennero seguiti dalla pubblicazione dagli archivi di altri paesi, e ho già menzionato che molti importanti libri revisionisti apparvero nei paesi europei.
Dopo la seconda Guerra Mondiale, la stragrande maggioranza degli scritti revisionisti sono stati prodotti negli Stati Uniti. I russi non avevano nessuno Zar da incolpare nel 1945. Stalin voleva che rimanesse intatta la leggenda che era rimasto sorpreso e tradito da Hitler con l’attacco nazista del 22 Giugno del 1941. L’Inghilterra vedeva il suo impero sgretolarsi, e i leader inglesi erano consapevoli della responsabilità primaria dell’Inghilterra per lo scoppio della guerra nel 1939; quindi venne fatto ogni sforzo per scoraggiare in Inghilterra gli scritti revisionisti. La Francia era dilaniata dagli odi molto più che all’epoca della Rivoluzione Francese, e oltre 100.000 francesi vennero massacrati in maniera legale o quasi-legale durante la “liberazione”. Solo il famoso giornalista Sidney Huddlestone, un inglese espatriato residente in Francia, il rinomato pubblicista Alfred Fabre-Luce e l’implacabile Jacques Benoist-Mechin produssero in Francia qualcosa di revisionista. Germania e Italia, per anni sotto il tallone dei conquistatori, non erano in grado di promuovere studi revisionisti. Anche quando questi paesi furono liberi, l’odio per Hitler e per Mussolini che perdurava dopo la guerra scoraggiò il lavoro revisionista. Solo Hans Grimm e Ernst von Salomon produssero in Germania qualcosa che somigliava al revisionismo, e le loro opere non erano dedicate alla storia diplomatica. Il solo libro apparso in Germania che può essere considerato letteralmente come un volume revisionista è la recente opera di Fritz Hesse Hitler e gli inglesi. Questo libro sviluppa la tesi già conosciuta che Hitler perse la guerra soprattutto a causa della sua anglomania e della sua riluttanza a usare tutta la sua forza militare contro gli inglesi quando la vittoria era ancora possibile. In Italia, l’eminente studioso – e storico della diplomazia – Luigi Villari, scrisse un libro importante sulla politica estera di Mussolini, che è una delle opere fondamentali del revisionismo dopo la seconda Guerra Mondiale, ma dovette pubblicare il libro negli Stati Uniti. La stessa cosa accadde al suo libro sulla “liberazione” dell’Italia dopo il 1943.
Il blackout storico
Negli Stati Uniti, il revisionismo ebbe una partenza precoce e un certo sviluppo, per quanto riguarda la produzione di libri importanti. Ma questa relativa profusione di letteratura revisionista fu sovrastata dagli ostacoli quasi insuperabili incontrati nel far conoscere – e far leggere – tale letteratura al pubblico. In altre parole, una quantità senza precedenti di libri revisionisti fu accompagnata da un “blackout storico” ancora più formidabile, che riuscì a occultare alla grande ai lettori queste opere.
Le ragioni di una produttività relativamente maggiore, da parte dei revisionisti, negli Stati Uniti dopo il 1945 non sono difficili da scoprire. C’erano stati oltre quattro anni di dibattito sulla situazione europea e mondiale, tra il discorso allo Chicago Bridge del presidente Roosevelt dell’Ottobre del 1937 e l’attacco giapponese a Pearl Harbor del 7 Dicembre del 1941. La maggior parte degli uomini che scrissero libri revisionisti dopo il 1945 avevano preso parte a questo grande dibattito, avevano raccolto materiale sulle questioni relative, e conoscevano bene le cose vere e le menzogne raccontate dagli interventisti. Erano ansiosi [i revisionisti] di uscire allo scoperto con libri che sostenessero la loro vecchia posizione non appena la fine delle ostilità lo rendesse possibile. Pearl Harbor li aveva ridotti al silenzio solo per la durata della guerra. Inoltre, gli Stati Uniti erano rimasti incolumi dalle devastazioni della guerra, erano in buone condizioni economiche al momento del V–J Day [il giorno della vittoria] e non avevano perso nessun possedimento coloniale. Quattro anni di animato dibattito prima di Pearl Harbor e quasi quattro anni di animose menzogne e di odi dopo quella data avevano raffreddato almeno in parte l’attitudine all’odio degli americani in quel periodo, rispetto alla situazione esistente in Europa e in Asia. Vi fu almeno un piccolo e breve momento di sollievo, fino a quando gli odi non vennero ravvivati quando Truman inaugurò la Guerra Fredda nel 1947.
Alcuni libri revisionisti
Abbiamo lo spazio per menzionare solo i risultati – notevoli – conseguiti dai revisionisti negli Stati Uniti. Il libro As We Go Marching [Mentre marciamo] di John T. Flynn venne pubblicato nel 1944, i suoi opuscoli pionieristici su Pearl Harbor nel 1944 e nel 1945, e il suo The Roosevelt Myth [Il mito di Roosevelt] nel 1948. Il Pearl Harbor di George Morgenstern apparve nel 1947; i due volumi di Charles Augustin Beard sulla politica estera di Roosevelt uscirono nel 1946 e nel 1948; e il libro Mirror for Americans: Japan [Uno specchio per gli americani: il Giappone] uscì nel 1948. L’America’s Second Crusade [La seconda crociata americana] di William Henry Chamberlin venne pubblicato nel 1950; il Design for War [Il piano per la guerra] di Fredric R Sanborn uscì dai torchi nel 1951; il Back Door to War [La porta di servizio verso la guerra] di Charles C. Tansill fece la sua apparizione nel 1952; l’opera collettanea, Perpetual War for Perpetual Peace [La guerra permanente per la pace permanente] che venne pubblicata a mia cura, e che presenta la migliore antologia delle conclusioni revisioniste sulla seconda Guerra Mondiale, uscì nell’estate del 1953; e il Secretary Stimson [Il Ministro Stimson] di Richard N. Current venne pubblicato nel 1954. The Final Secret of Pearl Harbor, dell’ammiraglio R. A. Theobald, apparve nel 1954; il The Myth of the Good and Bad Nations [Il mito delle nazioni buone e cattive] di Rene A. Wormser uscì lo stesso anno; la Admiral’s Kimmel’s Story, dell’Ammiraglio H. E. Kimmel venne pubblicata nel 1955; il libro Inside the State Department [Dentro il Dipartimento di Stato] di Bryton Barron venne pubblicato nel 1956; The Enemy at His Back [Il nemico alle spalle] di Elizabeth C. Brown venne pubblicato nel 1957.
Oltre a questi libri scritti da revisionisti americani, c’è uno straordinario elenco di volumi scritti da europei, che dovevano confrontarsi in patria con un blackout storico anche più soffocante, nonché assicurarsi degli editori rispettabili negli Stati Uniti. Tali furono i libri di Sisley Huddlestone, come Popular Diplomacy and War [La diplomazia di successo e la guerra], e France: The Tragic Years [Francia: gli anni tragici]; la critica sferzante ai processi sui crimini di guerra da parte di Lord Hankey e di Montgomery Belgion; il notevole libro di F. J. P. Veale, Advance to Barbarism [Avanzata verso la barbarie], che criticò sia i barbari bombardamenti a saturazione contro civili che i processi sui crimini di guerra; lo smascheramento devastante della germanofobia da parte di Russell Grenfell nel suo Unconditional Hatred [Odio incondizionato]; il brillante studio biografico di Emrys Hughes su Winston Churchill; e i volumi di Villari sulla politica estera di Mussolini e la liberazione d’Italia da parte degli Alleati. Vi fu un certo numero di altri libri ai margini del revisionismo vero e proprio, tra i quali The High Cost of Vengeance [Il prezzo alto della vendetta] di Freda Utley – che parla della follia e della barbarie degli Alleati in Germania dopo il V–E Day – è uno dei più notevoli e rappresentativi. Insieme ad esso, possono essere menzionati libri come Conqueror’s Peace [La pace del conquistatore] di Andy Rooney e Bud Hutton, And Call it Peace [E la chiamano pace] di Marshall Knappen, They Thought They Were Free [Pensavano di essere liberi] di Milton Mayer, e American Military Government in Germany di Harold Zink.
Quello che sappiamo ora
Non solo vennero pubblicati negli Stati Uniti dal 1945 in poi molti più libri revisionisti formidabili
che nell’analogo periodo dopo il 1918, ma i fatti rivelati da queste recenti ricerche revisioniste furono molto più sensazionali di quelli prodotti dagli studiosi revisionisti dopo la prima Guerra Mondiale. Dal 1937 in poi, Stalin aveva lavorato duro per una guerra di logoramento e di distruzione reciproca tra i paesi capitalisti – tra i paesi nazisti e fascisti e quelli democratici – tanto quanto fecero Sazonov e Izvolski nel 1914 per scatenare una guerra franco-russo-inglese contro la Germania e l’Austria. Hitler, lungi dallo sferrare in modo precipitoso una guerra aggressiva contro la Polonia dando seguito a richieste brutali e irragionevoli, fece uno sforzo molto più grande per evitare la guerra durante la crisi dell’Agosto del 1939 di quanto aveva fatto il Kaiser durante la crisi del Luglio del 1914. E le richieste di Hitler alla Polonia furono le più ragionevoli da lui fatte ad un paese straniero per tutta la durata del suo regime. Esse erano molto più concilianti persino di quanto Streseman e la Repubblica di Weimar erano stati disposti a prendere in considerazione. La Polonia fu molto più irragionevole e intransigente nel 1938-39 di quanto lo era stata la Serbia nel 1914. Mussolini cercò nel 1939 di dissuadere Hitler dall’entrare in guerra, e fece ripetuti sforzi per convocare delle conferenze di pace dopo che la guerra era iniziata. Lungi dal dare alla Francia “una pugnalata nella schiena” nel Giugno del 1940, fu virtualmente trascinato in guerra dagli atti ostili di strangolamento economico da parte dell’Inghilterra. La Francia era restia a entrare in guerra nel 1939, e solo le pressioni estreme del Foreign Office inglese sollecitarono Bonnet e Daladier ad aderire in modo riluttante il 2-3 Settembre del 1939 alla bellicosa politica inglese.
Mentre nel 1914 la responsabilità inglese per la prima Guerra Mondiale si riassunse soprattutto nella debolezza e nella doppiezza di Sir Edward Grey – una responsabilità più in negativo che in positivo – gli inglesi furono i responsabili quasi esclusivi sia dello scoppio delle ostilità fra tedeschi e polacchi che della Guerra in Europa agli inizi di Settembre del 1939. Lord Halifax, il ministro degli esteri inglese, e Sir Howard Kennard, l’ambasciatore inglese a Varsavia, furono anche più responsabili della Guerra in Europa del 1939 di quanto lo furono Sazonov, Izvolski e Poincare per quella del 1914. Il discorso di Chamberlain davanti al parlamento la notte del 2 Settembre del 1939 fu una falsificazione altrettanto menzognera della posizione tedesca di quanto lo era stato il discorso parlamentare di Sir Edward Grey il 3 Agosto del 1914.
La tesi contro Roosevelt
Come per l’entrata in guerra dell’America nella seconda Guerra Mondiale, la tesi contro il Presidente Roosevelt è molto più impressionante e compromettente di quella contro Woodrow Wilson, il quale, dopo l’Agosto del 1914, mantenne almeno qualche parvenza di neutralità per un certo periodo. Roosevelt “fece entrare in guerra gli Stati Uniti con le menzogne”. Si spinse tanto lontano da arrischiare azioni illegali, quali far scortare navi che trasportavano materiale bellico, per istigare la Germania e l’Italia a entrare in guerra contro gli Stati Uniti. Non essendovi riuscito, passò al tentativo, coronato da successo, di entrare in guerra dalla porta di servizio costituita dal Giappone. Respinse le ripetute e sincere proposte dei giapponesi, che anche secondo Hull salvaguardavano tutti gli interessi vitali dagli Stati Uniti in Estremo Oriente; con lo strangolamento economico dell’estate del 1941 costrinse i giapponesi ad attaccare Pearl Harbor; fece dei passi per impedire che i comandanti di Pearl Harbor – il Generale Short e l’Ammiraglio Kimmel – avessero a disposizione degli apparecchi di decifrazione per scoprire un attacco giapponese; impedì a Short e a Kimmel di ricevere i messaggi giapponesi decifrati che Washington aveva intercettato e che indicavano che la guerra poteva arrivare in qualsiasi momento, e ordinò al Generale Marshall e all’Ammiraglio Stark di non mandare nessun avvertimento a Short e a Kimmel prima delle ore 12 del 7 Dicembre, quando Roosevelt sapeva che ogni avvertimento sarebbe giunto troppo tardi ad evitare l’attacco giapponese delle ore 13, ora di Washington.
Roosevelt ha anche una grande responsabilità, sia diretta che indiretta, per lo scoppio della guerra in Europa. Iniziò a fare pressioni sulla Francia affinché tenesse testa a Hitler già durante la rioccupazione tedesca della Renania, nel Marzo del 1936, alcuni mesi prima di tenere i suoi discorsi fortemente isolazionisti nella campagna [presidenziale] del 1936. Queste pressioni sulla Francia, e anche sull’Inghilterra, continuarono fino all’avvento della guerra, nel Settembre del 1939. Queste pressioni acquistarono mole e vigore dopo il Discorso della Quarantena dell’Ottobre del 1937. Mentre si avvicinava la crisi, tra Monaco e lo scoppio della guerra, Roosevelt fece pressioni sui polacchi affinché respingessero ogni richiesta della Germania, e spronò gli inglesi e i francesi a sostenere i polacchi in modo incondizionato. Dagli archivi sequestrati ai polacchi e ai francesi, i tedeschi raccolsero non meno di cinque volumi di materiale consistente quasi esclusivamente di pressioni bellicose di Roosevelt sui paesi europei, soprattutto Francia e Polonia. Gli Alleati in seguito se ne impadronirono. Solo una piccola parte di essi venne pubblicata, in particolare quella sequestrata dai tedeschi in Polonia nel 1939, e pubblicata come Libro Bianco Tedesco. E’ molto probabile che il materiale riguardante le pressioni di Roosevelt sull’Inghilterra possa ammontare a più di cinque volumi. Non vi è nessuna certezza che l’Inghilterra sarebbe entrata in guerra nel Settembre del 1939, se non fosse stato per l’incoraggiamento di Roosevelt e per le sue assicurazioni che, in caso di guerra, gli Stati Uniti vi sarebbero entrati a fianco dell’Inghilterra non appena egli fosse riuscito a convertire l’opinione pubblica americana in favore dell’intervento. Ma quando la crisi divenne acuta dopo il 23 Agosto del 1939, Roosevelt inviò numerosi messaggi, a scopo propagandistico, in cui spronava i suoi interlocutori a evitare la guerra per mezzo dei negoziati.
Nonostante la voluminosa letteratura revisionista apparsa dopo il 1945 – e il suo contenuto sensazionale – non c’è ancora praticamente nessuna conoscenza da parte dell’opinione pubblica, a circa 13 anni di distanza dal V-J Day, dei fatti portati alla luce dai revisionisti. L’”uomo della strada” è propenso oggi ad accettare la leggenda del “Giorno dell’Infamia” di Roosevelt esattamente come lo era l’8 Dicembre del 1945. Un membro di un dipartimento di studi storici di un importante paese orientale mi ha scritto di recente di non aver mai sentito parlare di correnti revisioniste relative alla seconda Guerra Mondiale, fino a quando non lesse il mio articolo sulla rivista Modern Age della primavera del 1958. Nel 1928, la maggior parte degli uomini di cultura americani avevano una passabile conoscenza dei fatti riguardanti l’avvento della guerra nel 1914 e sull’entrata in guerra degli americani nel 1917. Quali sono le ragioni dello strano contrasto, nel progresso delle conoscenze, tra il periodo posteriore al 1918 e quello posteriore al 1945? Limiteremo il nostro esame delle ragioni di questa mancanza di conoscenze agli Stati Uniti.
Una delle ragioni principali del perché il revisionismo ha fatto pochi progressi, dal 1945 in poi, nell’attrarre l’attenzione del pubblico è che il paese non ha mai avuto il tempo di tirare il fiato dopo la guerra. Abbiamo fatto notare in precedenza che qui, dopo il 1945, la situazione non era così tesa come in Europa e in Giappone, ma era comunque molto più tesa di quanto non fosse negli anni ’20. Già nella campagna congressuale ed elettorale del 1918 vi fu una spaccatura nello schieramento politico favorevole alla guerra. Nella campagna del 1920, erano cominciate le disillusioni sulla guerra, e cominciò a farsi valere una tendenza all’isolamento rispetto ai conflitti europei. Gli Stati Uniti si rifiutarono di firmare il Trattato di Versailles, o di entrare nella Lega delle Nazioni. Dopo il 1918 vi fu un periodo di calma di circa 20 anni. Fino al 1941, la stragrande maggioranza del popolo americano voleva rimanere fuori dalla Guerra Europea, e Roosevelt ebbe grandi difficoltà a sbarazzarsi della legge sulla leva, varata in tempo di pace, e a ottenere la revoca della legislazione sulla neutralità.
Niente di tutto questo successe dopo il 1945. Nel Marzo del 1946, Winston Churchill proclamò la Guerra Fredda nel suo discorso a Fulton, in Missouri, tenuto con la benedizione del presidente Truman, e l’anno dopo Truman diede effettivamente inizio alla Guerra Fredda. Questa portò, nel 1950, allo scoppio di una guerra “calda” in Corea. La tecnica orwelliana di fondare il potere politico, e una fasulla prosperità economica, sulla guerra fredda è entrata in auge nel 1950, per poi godere di un potere illimitato sull’opinione pubblica. Una guerra calda procura emozioni in abbondanza, per quanto pericolose e maldestre, ma una guerra fredda deve essere costruita con la propaganda e la mitologia, e si deve basare su un’agitazione artificiale ottenuta con una propaganda pianificata. Le torture del romanzo 1984, per come vengono somministrate dal “Ministero dell’Amore” non si sono però dimostrate necessarie negli Stati Uniti. L’opinione pubblica americana si è dimostrata più sensibile al lavaggio del cervello mediante propaganda di quanto Orwell potesse immaginare, per quanto egli stesso fosse un esperto di propaganda della BBC. Il “bispensiero” orwelliano ha permesso alle Amministrazioni Truman e Eisenhower di varare e di rafforzare politiche reciprocamente contraddittorie, e la tecnica “anticrimine” del sistema semantico orwelliano impedisce all’opinione pubblica, e a molti dei suoi leader, di elaborare qualsiasi programma o proclama. Una politica di guerra permanente per una pace permanente non appare irragionevole o illogica all’opinione pubblica americana. Così, finora, la propaganda portata avanti dal nostro “Ministero della Verità”, con il sostegno quasi unanime della nostra stampa, è stata sufficiente a conservare alla Guerra Fredda il sostegno popolare.
E’ ovvio che un’opinione pubblica così manipolata ed eccitata non si preoccuperà seriamente dei fatti e degli scritti volti a screditare la guerra e a fornire una base solida per una pace effettiva. Sarebbe come aspettarsi che gli sceicchi del deserto si concentrino su dei libri dedicati alla pallanuoto o alle corse dei motoscafi. L’opinione pubblica è diventata quasi impenetrabile a queste questioni. Alla metà degli anni ’20, il fatto che gli Alleati schernissero lo Zio Sam come “Zio Shylock” per la miseria di 12 miliardi di dollari di debiti di guerra rese gli americani così furiosi da essere desiderosi di ascoltare le conclusioni dei revisionisti. Alla metà degli anni ’50, si ebbero gesti così apertamente offensivi e ingrati come “Yanks Go Home”, dopo che gli Stati Uniti avevano speso decine di migliaia di vite e 65 miliardi di dollari di aiuti all’estero, e l’opinione pubblica sembrava approvare. Deputati come John Taber, che per anni aveva cercato di bocciare il maggior numero possibile di stanziamenti volti a creare una vita migliore qui da noi, proclamò che gli aiuti all’estero erano così importanti da trascendere i criteri di moderazione, parsimonia ed economia che avevano guidato così a lungo l’utilizzo degli stanziamenti all’interno dei nostri confini.
I terribili anni Cinquanta
Un’altra spiegazione dell’ostilità o dell’indifferenza dell’opinione pubblica verso il revisionismo a partire dal 1945 va rintracciata nell’atmosfera intellettuale nettamente diversa degli anni ’20 rispetto a quella del periodo posteriore al 1945. Le condizioni negli anni ’20 e all’inizio degli anni ’30 furono le più propizie alla formazione di un pensiero indipendente e impavido rispetto a quelle di ogni altro decennio della storia americana moderna. Questo fu il periodo di Mencken e di Nathan, che arrivarono all’altezza della popolarità di un H. G. Wells. Era un periodo in cui il Mind in the Making [La mente in via di formazione] di James Harvey Robinson poteva diventare un bestseller, e Thorstein Veblen era il più rinomato economista americano. Dal 1945, siamo entrati in un periodo di unanimismo intellettuale senza confronti, dai tempi del massimo potere e della massima unità della Chiesa Cattolica al culmine del medioevo. Tra le pressioni esercitate dal regime orwelliano della guerra fredda, e quelle egualmente potenti del mondo civile o commerciale, l’individualità e l’indipendenza intellettuale sono quasi scomparse. In quest’era del 1984 [il romanzo di Orwell], di “The Organization Man” [persona che vive per l’azienda in cui lavora], di “The Man in the Grey Flannel Suit” [L’uomo col vestito di flanella grigia], dei “persuasori occulti”, e di “Madison Avenue”, anche il normale studente americano di college non è più incline al pensiero indipendente di quanto lo fosse un contadino cattolico durante il papato di Innocenzo III.
Un’altra ragione della resistenza senza precedenti incontrata dal revisionismo dopo la seconda Guerra Mondiale è il fatto che i liberal e i radicali, che furono le truppe d’assalto e l’avanguardia del revisionismo negli anni ’20, sono stati dal 1945 di gran lunga i primi nemici di ogni accoglimento dei fatti e delle conclusioni avanzati dai revisionisti. Costoro sono stati, nei mesi e negli anni tra il 1939 e il 1941, il partito della guerra in Inghilterra, in Francia, e negli Stati Uniti e non hanno mai ritrattato. Anche se la maggior parte dei liberali di primo piano avevano sostenuto con grande entusiasmo la guerra di Wilson dopo il 1917, essi rimasero totalmente disillusi dal Trattato di “Pace” e guidarono dopo il 1919 la riscossa revisionista. Specialmente degni di nota furono Herbert Croly e i suoi colleghi redattori del New Republic, che ritrattarono alla grande. Oswald Garrison Villard e la maggior parte dei suoi colleghi di The Nation non sentirono il bisogno di ritrattare, perché non avevano mai sostenuto in alcun modo l’intervento americano del 1917.
“I fatti vadano al diavolo!”
Una delle ragioni principali del perché i liberal e i radicali non sono riusciti a rivedere le loro opinioni e i loro atteggiamenti precedenti [alla seconda Guerra Mondiale] è che il loro odio per Hitler e per Mussolini era troppo grande per permettere loro di accettare qualunque fatto, quantunque ben fondato, che potesse in qualche modo diminuire le colpe di cui questi due uomini vennero accusati dal 1939 in poi – o anche dal 1935. In tal caso, “i fatti vadano al diavolo”. Non vi fu da parte loro, prima della guerra, altrettanto odio per Stalin da far dimenticare. L’odio per Hitler era particolarmente forte presso certi gruppi minoritari che erano stati particolarmente entusiasti del revisionismo successivo alla prima Guerra Mondiale.
In realtà, l’avversione a registrare qualunque fatto storico che possa presentare l’attività diplomatica di Hitler e di Mussolini in una luce un po’ più favorevole rispetto al tempo di guerra sembra essersi estesa alla maggior parte dei revisionisti odierni, anche a quelli di impronta conservatrice. Dopo la prima Guerra Mondiale, la maggior parte degli studi storici revisionisti riguardavano lo scenario europeo dell’Agosto del 1914. Vi furono solo tre libri revisionisti importanti dedicati all’entrata in guerra dell’America: quelli di Tansill, Grattan e Millis, mentre ce n’erano una ventina o più sulla situazione europea pubblicati in Europa e negli Stati Uniti. Il primo libro definitivo sull’entrata in guerra dell’America, l’America Goes to War [L’America va in guerra] di Tansill, non apparve prima del 1938, dieci anni dopo le Origins of the World War di Fay.
Dopo la seconda Guerra Mondiale, tutti i libri revisionisti scritti da autori americani riguardavano principalmente l’entrata americana in guerra. Non c’è stato nessun libro revisionista o qualche articolo revisionista importante che abbiano detto la verità sul 1939. L’approccio più vicino [al 1939] è l’abile e informata trattazione dello scenario europeo nel Back Door to War di Tansill, ma questo libro è dedicato soprattutto all’entrata americana in guerra. Sia l’avversione verso la minima attenuazione delle accuse belliche contro Hitler e Mussolini, che la paura delle risultanze, sembrano aver impedito persino ai revisionisti – sia negli Stati Uniti che in Europa – di affrontare in modo sistematico la crisi del 1939 a quasi venti anni di distanza dai fatti..
Alla luce del fatto che, all’inizio di quest’articolo, ho riassunto le conclusioni dei revisionisti sulle responsabilità per lo scoppio della guerra nel 1939, ci si può legittimamente domandare come posso conoscere la questione se sull’argomento non è stato pubblicato nessun libro definitivo. Tutto quello che ho detto viene sostenuto dal Back Door to War del professor Tansill. Ma è stata anche completata di recente una dettagliata trattazione della crisi del 1939 da parte di uno studioso straordinariamente preparato. Questo libro è dello stesso livello dell’opera monumentale sul 1914 del professor Fay. Ho letto il manoscritto con grande attenzione e scrupolo. Come opera di erudizione, ha riscosso l’approvazione dei più illustri dipartimenti di storia odierni di tutto il mondo. Rimane il problema della pubblicazione [Probabilmente qui Barnes si riferisce a Le Origini della seconda guerra mondiale, di A. J. P. Taylor].
I gruppi anti-interventisti del 1937 e degli anni successivi, come America First, erano principalmente conservatori e per la maggior parte accolsero favorevolmente le prime pubblicazioni revisioniste. Ma presto si allinearono alla Guerra Fredda grazie ai vantaggi per gli affari – nell’industria, nel commercio e nella finanza – che un esorbitante programma di riarmo aveva fornito. In seguito, ebbero paura e si rifiutarono di dare qualsiasi aperto sostegno, finanziario o in altra forma, a un movimento intellettuale che minava totalmente i presupposti della guerra fredda, così come aveva fatto con la mitologia interventista del 1939-41. Quindi il revisionismo, a partire dal 1947, non solo è rimasto impopolare o ignorato, ma è stato anche segnato dalla povertà. D’altro canto, le fondazioni ricche hanno finanziato in abbondanza i libri anti-revisionisti. Sono stati dati circa 150.000 dollari per contribuire alla pubblicazione dei libri di Langer e di Gleanson, che costituiscono lo sforzo più notevole per coprire le responsabilità della diplomazia di Roosevelt e di Churchill.
Altri fattori hanno contribuito all’ostruzionismo quasi incredibile subìto dal revisionismo a partire dal 1945. Le eccessive politiche e misure di “sicurezza” adottate sotto il regime della guerra fredda hanno aumentato di molto la paura e i timori dei funzionari pubblici, degli studiosi, e dell’opinione pubblica in generale. Poiché il revisionismo ha coerentemente messo in discussione l’intero edificio della politica ufficiale americana a partire da Pearl Harbor, aderirvi era rischioso. E’ diventato pericoloso lavorare per la pace, a meno che non lo si faccia facendo la guerra. La stampa, naturalmente, preferisce il sistema di riferimento a tinte forti di una Guerra Fredda all’erudizione prosaica del revisionismo. Negli anni ’20, la stampa era affine al revisionismo perché esso appoggiava l’orientamento prevalente della nostra politica riguardo ai risarcimenti, ai debiti di guerra, all’isolazionismo, al disarmo, alla neutralità e simili. Oggi, il revisionismo mette in discussione l’onestà, l’intelligenza e l’integrità dei fondamenti della nostra politica estera, con le devastanti rivelazioni che esso fa dei risultati disastrosi, a partire dal 1937, delle nostre bellicose ingerenze internazionali.
Particolarmente difficile è riuscire a far sì che i libri revisionisti vengano pubblicati in condizioni tali da suscitare l’interesse e la conoscenza del pubblico, e che vengano presentati ai lettori in modo onesto ed efficace. Vi sono solo due case editrici, e relativamente piccole, che hanno pubblicato con continuità libri revisionisti: la Henry Regnery Company di Chicago, e la Devin-Adair Company di New York. Solo altri cinque piccoli editori hanno pubblicato un libro revisionista – un solo libro a testa, tranne la Yale University Press, che ha fatto uscire entrambi i volumi di Beard, perché di Beard il direttore era amico intimo e grande ammiratore. Le case editrici universitarie considerano rischioso indulgere in opere revisioniste; W. T. Couch, l’esperto direttore della University of Chicago Press, venne licenziato soprattutto perché pubblicò un volume revisionista così outsider come l’ammirevole libro di A. Frank Reel, The Case of General Yamashita. Dopo Pearl Harbor, nemmeno uno dei grandi editori commerciali degli Stati Uniti ha fatto uscire un solo libro sostanzialmente e letteralmente revisionista. Tutto ciò è in netto contrasto con l’atteggiamento degli editori verso i libri revisionisti negli anni ’20 e all’inizio degli anni ’30. Allora, gli editori più grandi erano bramosi di avere quei libri. La classica opera del professor Fay venne pubblicata dalla Macmillan Company, e la monumentale opera in due volumi di John S. Ewart venne pubblicata da Doran. Alfred Knopf pubblicò negli anni ‘20 la mia Genesis, oltre a una vera e propria biblioteca di libri revisionisti, ma nel 1953 si rifiutò persino di prendere in considerazione un libro revisionista lieve e moderato come lo studio erudito del professor Current sulla carriera pubblica del Ministro Henry L. Stimson.
C’è un certo numero di ovvie ragioni del perché i grandi editori oggi stanno alla larga dai libri revisionisti. In primo luogo, sono cittadini americani e, per ragioni già esaminate, come la maggior parte dei loro compatrioti, a essi non piace abbandonare le convinzioni, le emozioni, gli odi e i pregiudizi che avevano prima e durante la guerra; alla maggior parte di costoro i revisionisti e il revisionismo proprio non piacciono. Inoltre, sapendo che il revisionismo è notoriamente impopolare, capiscono che i libri revisionisti probabilmente non venderebbero; quindi, le pubblicazioni revisioniste sono un business relativamente scarso. Inoltre, quegli editori che potrebbero a titolo personale concordare con il revisionismo e ai quali andrebbe di pubblicare qualche libro revisionista, anche se dovessero ricavarne scarso profitto o persino una piccola perdita, non possono proprio considerare un libro revisionista in base ai suoi meriti o per sé stesso. Devono tenere conto del suo effetto potenziale sul mercato editoriale complessivo, e sul pubblico che compra i libri. La perdita che potrebbero sostenere semplicemente pubblicando un libro revisionista potrebbe essere insignificante in confronto a quello che potrebbero perdere a causa della cattiva impressione che una tale pubblicazione potrebbe fare o alle ritorsioni che potrebbero venire.
La paura dei club del libro
Essi temono in particolare le possibili ritorsioni da parte dei vari club del libro, poiché tutti quelli potenti sono strettamente controllati da quei gruppi e da quegli interessi che oggi sono totalmente ostili al revisionismo. L’America’s Second Crusade di William Henry Chamberlin è la trattazione revisionista della seconda Guerra Mondiale davvero adatta ad essere venduta e letta a livello popolare. E’ paragonabile esattamente al Road to War di Walter Millis dedicato alla nostra entrata nella prima Guerra Mondiale. Il libro di Millis venne a suo tempo selezionato come Libro-del-Club e venduto a centinaia di migliaia di copie. Il responsabile di una delle più grandi case editrici del mondo conosceva e apprezzava Chamberlin, ammirava il suo libro, e personalmente gli sarebbe piaciuto di pubblicarlo. Ma riteneva, abbastanza comprensibilmente, di non poterlo fare, tenendo conto dei suoi azionisti. Come disse, se avesse pubblicato il libro di Chamberlin, probabilmente la sua azienda non sarebbe riuscita ad avere un altro Libro-del-Club per altri dieci anni. Il libro di Chamberlin venne pubblicato da Henry Regnery.
E’ istruttivo fare un raffronto del suo destino [editoriale] con quello del Road to War di Millis. La libreria Macy’s, di New York, ordinò cinquanta copie del libro di Chamberlin e ne restituì quaranta come invendute. Se fosse dipeso dai suoi meriti, ne sarebbero state vendute sicuramente cinquemila o seimila. Un anno dopo la data di pubblicazione, non c’era nemmeno una copia del libro alla New York Public Library o in una delle sue diramazioni. I libri revisionisti sono virtualmente boicottati, quando parliamo delle vendite al circuito delle biblioteche pubbliche. La donna che negli Stati Uniti esercita sulle ordinazioni librarie un’influenza più grande di chiunque altro è violentemente anti-revisionista. Ella, tramite i suoi consigli ai bibliotecari in cerca di assistenza sui libri da comprare, si adopera in modo da ignorare o diffamare i libri revisionisti.
Anche quando i libri revisionisti finiscono nei negozi, i commessi si rifiutano frequentemente di metterli in mostra e, in qualche caso, arrivano persino a mentire sulla loro disponibilità. Nel reparto librario di un grande magazzino americano, una donna voleva acquistare una copia del libro revisionista più letto. La commessa le disse con aria sicura che l’ordinazione era esaurita e che non c’erano più copie disponibili. La cliente sospettò che stava mentendo e fece fare un’ispezione al direttore. Si scoprì che c’erano oltre cinquanta copie nascoste sottobanco e che la commessa lo sapeva. Il direttore del magazzino fu così indignato che ordinò al reparto di mettere in particolare rilievo il libro fino a quel momento rimasto nascosto.
Le riviste importanti sono tanto riluttanti a pubblicare articoli revisionisti quanto le grandi case editrici a pubblicare qualsiasi libro revisionista. Anche questo è in totale contrasto con la situazione degli anni ’20, quando i direttori dei migliori periodici erano desiderosi di avere articoli autorevoli da parte dei revisionisti. Ma nessun articolo sostanzialmente revisionista è stato più stampato su un periodico a larga diffusione dai tempi di Pearl Harbor. La ragione dell’allergia editoriale agli articoli revisionisti è la stessa che affligge i responsabili delle grandi case editrici relativamente ai libri revisionisti.
Per quanto possa sembrare incredibile, non solo gli editori ma anche i tipografi hanno cercato di eliminare materiale revisionista. Quando presentai a una tipografia di New York un sobrio opuscolo, basato su ricerche approfondite e volto a esporre i fatti basilari della carriera militare e politica del Maresciallo Petain, lo stampatore si rifiutò di di stampare l’opera a meno che non fosse stata approvata dalla censura di uno dei più potenti, e violentemente antirevisionisti, gruppi di minoranza del paese. Al che, portai la copia a un’importante tipografia della zona nord di New York che non era influenzabile da tale forma di pressione. L’episodio ricorda la censura preventiva che esisteva ai tempi di Copernico.
Il destino delle recensioni
Gli impedimenti imposti ai libri revisionisti non sono limitati alle difficoltà di pubblicazione e di distribuzione. Quando questi libri vengono pubblicati, di solito vengono ignorati, nascosti, o calunniati. Raramente ricevono segnalazioni soddisfacenti o recensioni oneste, anche se è ovvio che l’opinione del recensore possa essere sfavorevole. Come è stato consigliato ai suoi operatori da una delle principali organizzazioni responsabili del blackout, è preferibile ignorare totalmente un libro se si vuole rovinare la sua distribuzione e la sua influenza. Anche una recensione malignamente sleale avrebbe l’effetto di richiamare almeno una certa attenzione per il libro e potrebbe suscitare qualche curiosità e interesse. Ignorarlo completamente farà più di qualsiasi altra cosa per relegarlo nell’oblio. Sotto la direzione di Guy Stanton Ford, la politica dichiarata della American Historical Review fu quella di non recensire volumi “controversi”, ma dopo un attento esame venne fuori che “controverso” significava “revisionista”. I più controversi libri antirevisionisti in commercio ricevettero risalto e recensioni favorevoli, come quelle accordate di solito a libri considerati importanti.
Quando i libri revisionisti vengono effettivamente catalogati e recensiti, di solito viene data loro una posizione marginale, spesso nella sezione delle note. Questo fu il caso del libro di Luigi Villari Italian Foreign Policy under Mussolini [La politica estera italiana sotto Mussolini]. Sebbene fosse un libro di fondamentale importanza nel campo della storia diplomatica – il solo volume autorevole apparso sull’argomento e l’autore considerato la più rinomata autorità vivente della materia – il libro venne relegato nella sezione delle note dell’American Historical Review. I limiti di spazio non mi permettono di citare qui in dettaglio il destino dei principali libri revisionisti nelle pubblicazioni erudite, nella sezione dei periodici destinata alle recensioni librarie, e nei giornali. Ho esaminato a fondo questa questione nel primo capitolo di Perpetual War for Perpetual Peace.
L’essenza della situazione è che non importa quanti libri revisionisti vengono pubblicati, quanto alta sia la loro qualità, o quanto sensazionali siano le loro rivelazioni: tutto ciò non avrà effetto sull’opinione pubblica americana fino a quando quest’ultima non conoscerà l’esistenza, la natura e l’importanza della letteratura revisionista. Che essa non sia ancora riuscita a rendersene conto è ovvio, e gli ostacoli dimostratisi finora tanto efficaci non si sono ridotti in modo significativo. E’ per questa ragione che gli storici e i pubblicisti onesti accoglieranno favorevolmente l’evidente desiderio dei redattori di Liberation di aprire le sue colonne a una discussione sul revisionismo e alla rivelazione della sua importanza per la salute pubblica del paese. E’ il primo passo che è stato preso in questa direzione da un giornale liberale dai tempi di Pearl Harbor.
Favoritismi
Finora ho descritto quasi esclusivamente gli sforzi privati o non-ufficiali di nascondere la verità relativa alle cause e ai risultati della seconda Guerra Mondiale. La censura ufficiale è stata non solo implacabile ma anche per molti versi più sconcertante. Coloro che pubblicano documenti ufficiali non dovrebbero essere condizionati da considerazioni di profitti o perdite. Più di dieci anni fa, Charles Augustin Beard deprecò la procedura seguita dal Dipartimento di Stato, per la sua tendenza a permettere agli storici favorevoli alla politica estera ufficiale di usare i documenti governativi abbastanza liberamente, e di negare tale accesso a chiunque fosse sospettato di simpatie revisioniste. Questa protesta portò a un qualche rilassamento momentaneo della censura, e fu un caso fortunato che il professor Tansill riuscì a condurre buona parte delle sue ricerche in quel momento. Ma ben presto la censura e le restrizioni tornarono a pieno regime.
Quando andarono al potere nel 1953, i repubblicani promisero una drastica riforma di questo abuso, ma non riuscirono ad attuare le loro assicurazioni e, sotto il Ministro Dulles, lo scandalò aumentò in proporzioni molto più grandi che sotto il potere dei democratici. Lo stesso consulente per le questioni storiche, G. Bernard Noble, ebbe prorogato il proprio incarico e a dire il vero fu anche promosso a Direttore della Sezione Storica del Dipartimento di Stato. Era un democratico, uno studioso Rhodes, e conosciuto come uno dei più frenetici sostenitori del nostro intervento nella seconda Guerra Mondiale – tra tutti i politologi americani – e un nemico implacabile del revisionismo.
Nel Maggio del 1953, il Dipartimento di Stato promise che tutti i documenti delle conferenze internazionali tenute durante la seconda Guerra Mondiale sarebbero stati pronti per essere pubblicati nel giro di un anno e che tutti gli altri documenti del periodo dal 1939 in poi sarebbero stati presto pubblicati.
Non venne fatto nulla fino alla primavera del 1955, quando i documenti della Conferenza di Yalta vennero finalmente pubblicati. Era evidente, e lo fu presto a tutti, che tali documenti erano stati ingarbugliati e censurati in modo lampante. Due competenti membri dello staff storiografico del Dipartimento, Bryton Barron e Donald Dozer, protestarono contro questa soppressione e manipolazione dei documenti. Noble costrinse Barron ad andare anticipatamente in pensione senza stipendio e licenziò Dozer. Quest’ultimo venne reintegrato dalla Commissione del Servizio Civile ma Noble riuscì a licenziarlo una seconda volta, e questa volta in via definitiva. Barron era stato incaricato della catalogazione del materiale riguardante la Conferenza di Yalta, e Dozer di quello delle Conferenze del Cairo e di Teheran. Da quella volta è stata presentata solo un’altra pubblicazione, e cioè certi documenti incompleti riguardanti il 1939. Stiamo parlando dell’anno scorso e anche in questo caso si tratta di documenti censurati e ingarbugliati.
In tutto questo tempo, sono stati raccolti e messi a disposizione per essere pubblicati circa 37 volumi riguardanti la nostra politica estera a partire dal 1939. Ma nessuno di questi è stato inviato allo stampatore e, nella primavera del 1958, il Dipartimento di Stato ha banalmente annunciato di non aver proposto la pubblicazione di nessuno di questi volumi nel prossimo futuro. Come spiegazione ha detto che la loro pubblicazione potrebbe potenzialmente offendere delle persone tra i nostri alleati della NATO. Per dare a questa sorprendente procedura una qualche apparenza di autorità storica, il Dipartimento di Stato ha nominato, nel 1957, un comitato selezionato per consigliare il Dipartimento sui testi da pubblicare. I membri di tale comitato, che non ha tra le proprie fila nessuno storico revisionista, hanno assicurato che sarebbero stati dati i giusti consigli. Il presidente non era altri che il professor Dexter Perkins, effettivamente un piacevole e affabile politologo, ma anche un esponente di quella mezza dozzina di eminenti e implacabili nemici della storiografia revisionista di questo paese. Il comitato ha ammesso in modo ossequioso che la pubblicazione dei 37 volumi che giacciono sugli scaffali aspettando gli stampatori governativi non sarebbe politicamente opportuna.
Quando Barron è apparso davanti ad una commissione del Senato per protestare contro le censure e i ritardi, gli sono stati permessi solo undici minuti per testimoniare, anche se ai testimoni che sostenevano la censura ufficiale è stato permesso di parlare a lungo. Come ha detto uno dei più bravi editorialisti del paese, decisamente a ragione: “Un tale record di occultamenti e di doppiezza è senza precedenti. Il suo solo termine di paragone è la “buca della memoria” del 1984 di George Orwell, dove un regime totalitario del futuro si sbarazzava di tutti i documenti e i fatti che non rientravano nella linea ufficiale del partito”. Tutto ciò non è certo coerente con il ruolo assunto dagli Stati Uniti quale guida delle “Nazioni Libere”, o con la nostra aspra condanna dei russi per aver sottoposto a censura i loro documenti ufficiosi.
Vi sono, naturalmente, alcuni cruciali documenti ufficiosi riguardanti l’inizio della seconda Guerra Mondiale che il governo non si è mai neppure sognato di pubblicare e che sono così esplosivi che nemmeno agli storici impegnati nel coprire le responsabilità governative è stato permesso di usarli. Si tratta dei cosiddetti “Documenti Kent”, e cioè i circa 2.000 messaggi segreti scambiati illegalmente in codice tra Churchill e Roosevelt dal Settembre del 1939 in poi. Lo stesso Churchill ci ha detto francamente che questi documenti contengono buona parte delle informazioni vitali sulla collaborazione tra lui e Roosevelt nel loro sforzo congiunto di fare entrare in guerra gli Stati Uniti. Quando il più imponente tentativo storiografico di coprire le responsabilità di Churchill e Roosevelt stava per iniziare, Churchill ha minacciato l’autore principale di portarlo in tribunale se avesse utilizzato questi “Documenti Kent”.
La soppressione dei documenti relativi alle responsabilità della seconda Guerra Mondiale si estende, naturalmente, ben oltre tutte le attività e i rapporti anglo-americani. Quando i comunisti e i socialisti della Russia, della Germania e dell’Austria pubblicarono dopo il 1918 i loro archivi per screditare i vecchi regimi imperiali, questo costrinse gli inglesi e i francesi a fare lo stesso. Alla fine, gli studiosi avevano virtualmente tutti i fatti a disposizione.
Niente del genere è stato possibile dopo la seconda Guerra Mondiale. Le Potenze Alleate vittoriose, principalmente l’Inghilterra e gli Stati Uniti, catturarono gli archivi tedeschi e italiani, tranne qualcuno dei più vitali documenti italiani che i comunisti italiani distrussero, con la connivenza degli inglesi, quando catturarono e uccisero Benito Mussolini. Oggi, la Germania e l’Italia non potrebbero pubblicare tutti i documenti che li riguardano, anche se lo volessero, perché non li hanno più. Alcuni sono tornati in Italia, e i tedeschi hanno promesso di fornire i propri. Ma si può stare certi che non verrà incluso nessun materiale che riguardi seriamente gli Stati Uniti e l’Inghilterra. Ogni pubblicazione è stata perciò limitata finora a quello che le autorità americane e inglesi hanno ritenuto opportuno divulgare, e non vi sono prove che tale materiale sia stato presentato più integralmente e più onestamente di quanto è stato fatto con i documenti della conferenza di Yalta. Né ci si può aspettare che i tedeschi e gli italiani pubblichino nulla che possa in qualche modo modificare l’esecrazione bellica di Hitler e di Mussolini. A differenza della Repubblica di Weimar, il governo di Adenauer è fermamente ostile alla storiografia e alle pubblicazioni dei revisionisti. Lo stesso è vero per il governo italiano.
La conseguenza principale di tutte queste censure ufficiali è che il verdetto dei revisionisti relativo alle responsabilità della seconda Guerra Mondiale è molto meno drastico di quello che sarà se e quando tutti i documenti saranno disponibili. Se i documenti che sono stati soppressi in così grande quantità e con tale accuratezza fossero in grado di diminuire il già duro atto di accusa contro i leader del tempo di guerra, la logica elementare e la strategia sosterrebbero la supposizione che sarebbero già stati pubblicati da molto tempo, per cambiare o eliminare i duri giudizi già espressi nelle opere revisioniste.
C’è un paradosso che va notato, relativamente allo status e ai risultati del revisionismo dopo le due Guerre Mondiali. Dopo la prima Guerra Mondiale il verdetto dei revisionisti, quanto alle responsabilità della guerra, fu ampiamente accettato dagli studiosi e dagli uomini pubblici intelligenti, ma poco venne fatto per rivedere il sistema postbellico europeo basato sulle menzogne e la propaganda belliche. Se fossero stati compiuti i passi logici per rivedere i trattati postbellici quando c’era ancora la repubblica tedesca, è improbabile che Hitler sarebbe mai riuscito a conquistare il potere in Germania, che ci sarebbe mai stata una seconda Guerra Mondiale, o che saremmo arrivati alla Guerra Fredda. Dopo la seconda Guerra Mondiale, mentre i fatti portati alla luce dai revisionisti quanto alle responsabilità della guerra sono stati ignorati – in realtà sono virtualmente sconosciuti alle opinioni pubbliche degli Alleati vittoriosi – c’è stata una revisione quasi completa della politica ufficiale verso i nostri ex nemici. Sia la Germania che il Giappone sono stati quasi costretti a riarmarsi, e sono stati dati loro grandi aiuti economici in modo che essi possano ora fungere da alleati contro il nostro ex alleato, l’Unione Sovietica. Si può immaginare l’indignazione se, diciamo nel 1925, avessimo insistito che la Germania e l’Austria dovevano riarmarsi fino ai denti, e avessimo espresso la nostra intenzione di permetterglielo!
Una situazione come quella che ha avuto luogo dopo il 1945 potrebbe essere possibile solo in un’epoca di “bis-pensiero” e di “anticrimine” orwelliani. Abbiamo speso circa 400 miliardi di dollari per distruggere la Germania e il Giappone e, dopo la loro distruzione, abbiamo versato ancora più miliardi per ripristinare il loro potere militare. Se fosse concepibile che potessimo combattere una terza guerra mondiale senza sterminare tutti i contendenti, potremmo prevedere una situazione dove, dopo aver distrutto la Russia, andremmo a darle dei miliardi per ricostruire la sua forza bellica per difenderci contro la Cina e l’India.
Una lezione che il revisionismo può insegnarci è che dovremmo apprendere da esso l’atteggiamento in grado di proteggerci contro la ripetizione delle follie e delle tragedie. L’eminente filosofo John Dewey disse a un mio amico che se il suo atteggiamento verso la prima Guerra Mondiale non fosse stato tanto sbagliato (quale è stato espresso dal suo libro German Philosophy and Politics) avrebbe potuto cadere preda della propaganda che ci ha portato alla seconda Guerra Mondiale. Ma le opinioni pubbliche sembrano meno capaci di apprendere dall’esperienza di un filosofo pragmatista. Esse sembrano dare ragione alla classica osservazione di Hegel che la sola lezione che la storia ci insegna è che dalla storia non impariamo nulla. In un’età di bombe all’idrogeno, di missili guidati intercontinentali, di armi chimiche e batteriologiche terrificanti, e di tecnologia militare in cui basta premere un bottone, dovremo far meglio dell’umanità al tempo di Hegel se vi sarà una qualche prospettiva di sopravvivenza o se riusciremo a raggiungere un grado di pace, di sicurezza e di benessere tali da giustificare la sopravvivenza. Ma l’opinione pubblica americana non può certo imparare lezioni dal revisionismo se non sa neanche che esiste, a prescindere dai suoi contenuti e dalle sue implicazioni.
A meno che, e fino a quando, non riusciremo a superare il blackout storico, ora sostenuto anche dalla politica ufficiale, e a permettere ai popoli della terra di conoscere i fatti concernenti le relazioni internazionali durante l’ultimo quarto di secolo, non ci può essere una vera speranza di pace, di sicurezza e di prosperità che i progressi della scienza e della tecnologia rendono possibili. Il benessere del genere umano, se non della sua stessa sopravvivenza, dipende letteralmente dal trionfo del revisionismo.
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