Di Thomas Kues (2008)[1]
La testimonianza di Stanislaw Kozak
Stanislaw Kozak, un fabbro per serrature, fu una delle venti persone del luogo che parteciparono a Bełżec alla costruzione del presunto campo di sterminio, a sud-est di questo paese polacco. Il 14 Ottobre del 1945, Kozak venne interrogato dal giudice regionale Czeslaw Godzieszewski. Secondo la sua testimonianza, Kozak e gli altri paesani lavorarono dal 1 Novembre al 22 Dicembre del 1941 alla costruzione di tre baracche di varia grandezza. La struttura della terza, e più piccola, delle tre baracche, che è stata identificata dagli storici ortodossi come il primo edificio di gasazione, viene così descritta da Kozak:
“Era divisa in tre stanze da muri di legno, ogni stanza misurava metri 4×8; le stanze erano alte due metri. I muri divisori erano fatti di tavole di legno inchiodate da entrambi i lati, l’intercapedine era stata riempita di sabbia. All’interno, i muri della baracca erano ricoperti di cartone; i pavimenti e i muri, fino all’altezza di un metro e 10 centimetri, erano ricoporti di lastre di acciaio elettrizzato. (…) C’erano tre porte di accesso alle tre stanze della baracca. Ogni stanza aveva una porta sul lato nord, alta circa 1.80 metri e larga circa 1.10 metri. Queste porte, come pure quelle del corridoio, erano strettamente sigillate con gomma. Tutte le porte di questa baracca aprivano verso l’esterno. Le porte erano molto forti, fatte con tavole di quasi 8 centimetri di spessore, e protette contro le spinte dall’interno da un catenaccio di legno fissato tra due ganci montati espressamente per questo scopo”.[2]
Poiché il resoconto di Kozak è particolarmente dettagliato nella sua descrizione dell’”edificio di gasazione”, è molto interessante per chiunque cerchi di capire quello che accadde davvero nel “campo della morte” di Bełżec.
Nel seguente articolo, discuterò le implicazioni che il resoconto di Kozak – come pure di altre testimonianze oculari – ha per le accuse secondo cui nelle prime camere a gas di Bełżec vennero eseguite delle gasazioni sperimentali con monossido di carbonio in bottiglia e Zyklon B.
L’interpretazione revisionista dei forni
Forse l’aspetto più controverso della testimonianza di Kozak riguarda i tre forni che il testimone riferisce di aver contribuito ad installare all’interno delle tre “camere a gas”. Prima di iniziare con le mie osservazioni, citerò la parte cruciale della testimonianza per rendere più comprensibile la mia argomentazione. Ecco il passaggio suddetto:
“Ognuna delle tre stanze aveva delle condutture per l’acqua, a un livello di 10 centimetri sopra il pavimento. Inoltre, sul muro occidentale di ogni settore della baracca le condutture dell’acqua salivano al livello di un metro sopra il pavimento, terminando in un’apertura diretta dentro la stanza. Le condutture a gomito sui muri della baracca erano collegate ai tubi che correvano sotto il pavimento. In ognuno dei tre locali della baracca impiantammo dei forni che pesavano circa 250 chilogrammi. Si può presumere che le condutture a gomito vennero in seguito collegate ai forni. I forni erano alti 1 metro e 10 centimetri, larghi 55 centimetri, e profondi 55 centimetri. Per curiosità guardai dentro uno dei forni attraverso la porta del forno. Non vidi nessuna griglia. L’interno del forno sembrava essere rivestito di mattoni refrattari. Non vidi nessun’altra apertura. La porta del forno era di forma ovale, aveva un diametro di circa 25 centimetri e si trovava a circa 50 centimetri sopra il pavimento”.[3]
I revisionisti hanno fatto notare che i forni descritti costituiscono una notevole anomalia, e cioè che non sono oggetti che ci si aspetterebbe di trovare in una camera a gas omicida. Lo storico revisionista Carlo Mattogno conclude che essi erano dei Heißluftentwesungsöfen, o forni di disinfestazione ad aria calda, senza tuttavia fornire nessuna ulteriore documentazione per avvalorare quest’affermazione.[4] Mattogno, d’altro canto, ha scritto riguardo a un’attrezzatura più sofisticata di disinfestazione ad aria calda che si trovava a Majdanek:
“Mentre per questo progetto, le otto camere di spidocchiamento erano larghe ognuna 2 metri, alte 2.10 metri, e lunghe 3.50 metri, ed erano riscaldate con un calorifero, o stufa, alimentato a coke, ubicato in mezzo a ogni coppia di camere dietro i muri esterni. All’interno, un’apertura in cima, collegata con la stufa, permetteva all’aria calda di uscire; sul lato opposto, sul pavimento di ogni coppia di camere, c’era un’apertura per la ventilazione anch’essa connessa con la stufa per mezzo di un canale sotterraneo. In termini strutturali, l’attrezzatura era molto simile al modello progettato dalla ditta Kori il 5 Luglio del 1940, per l’attrezzatura di spidocchiamento di Alt-Drewitz. Lo spidocchiamento veniva eseguito non con Zyklon B ma con aria calda”.[5]
Il ricercatore francese Jean-Claude Pressac, che d’altro canto credeva (o professava di credere) nell’esistenza delle camere a gas omicide naziste, pubblicò nel 1995 uno studio in cui propose che i tre campi Reinhardt (Bełżec, Sobibór e Treblinka) fossero stati inizialmente delle strutture di transito e di spidocchiamento, che solo inseguito vennero provviste di installazioni di sterminio. Lo stesso articolo assume implicitamente che i forni descritti da Kozak fossero parte di un sistema di spidocchiamento che utilizzava vapore o aria calda.[6]
L’interpretazione sterminazionista dei forni
E’ degno di nota che Yitzhak Arad, la più importante autorità ortodossa sull’argomento dei “campi della morte” dell’Aktion Reinhardt, nella sua opera di riferimento sui detti campi cita gran parte della testimonianza di Kozak, inclusa la descrizione dei forni, senza fornire nessun commento, neanche breve, sulla presenza di questi ultimi.
Gli scritti sterminazionisti successivi, e specialmente quelli degli antirevisionisti che scrivono su internet, hanno a quanto pare ritenuto necessario affrontare l’argomento. Il loro modo usuale di affrontare la questione dei tre forni – come pure il fatto che Kozak non menzioni nessun tipo di motore utilizzato per le gasazioni o qualunque tipo di gas letale – è quello di affermare che i primi mesi dell’esistenza del campo costituirono una fase sperimentale in cui venne usato come gas letale il monossido di carbonio in bottiglia (e forse anche lo Zyklon B, secondo qualche rara fonte), piuttosto che il gas di scarico proveniente da qualche motore. I forni, viene detto, servivano a
“riscaldare le stanze della baracca, permettendo così al gas in bottiglia e allo Zyklon B utilizzati nella prima fase delle attività omicide del campo di funzionare in modo più efficace quando il tempo era freddo”.[7]
L’idea che per le gasazioni omicide venisse utilizzato il monossido di carbonio in bottiglia sembra fondata esclusivamente sulla testimonianza postbellica dell’ex membro delle SS di Bełżec Josef Oberhauser, che dichiarò che:
“Durante i primi esperimenti, e durante la prima serie di trasporti nella seconda serie di esperimenti, il gas in bottiglia era ancora utilizzato per le gasazioni, ma per gli ultimi trasporti della seconda serie di esperimenti gli ebrei vennero uccisi con il gas di scarico di un carro armato o del motore di un carro, che veniva azionato da [Lorenz] Hackenholt”.[8]
Anche la diceria delle gasazioni con Zyklon B viene da Josef Oberhauser. Le vittime erano presuntamente gli ebrei che avevano lavorato alla costruzione del campo.[9]
Ma i forni descritti da Kozak erano adatti, o almeno compatibili, per l’uso suddetto? Questa è la questione che affronterò nella parte seguente dell’articolo.
Le presunte gasazioni con il monossido di carbonio in bottiglia
Un opuscolo intitolato Carbon Monoxide in the Work Place [Il monossido di carbonio sul luogo di lavoro] e diffuso dalla Canadian Industrial Accident Prevention Association (IAPA) ci informa sulle seguenti caratteristiche del gas monossido di carbonio (i corsivi sono miei):
“Il monossido di carbonio è infiammabile. Le miscele di monossido di carbonio e di aria comprese nello spettro di infiammabilità prenderanno fuoco in presenza di una fiamma o di una scintilla. Le miscele infiammabili contenenti monossido di carbonio o altri gas possono facilmente venire infiammate da superfici riscaldate, da fuochi accesi, e persino dal mozzicone acceso di una sigaretta. La seria natura del rischio di infiammabilità si riflette nell’ampio spettro di infiammabilità del monossido di carbonio nell’aria”.[10]
La stessa fonte fornisce lo spettro di infiammabilità (per volume d’aria) del monossido di carbonio come 12.5-74%, che è sicuramente uno spettro molto ampio. Avverte anche di spegnere i fuochi in cui è presente il monossido di carbonio a meno che non sia possibile fermare il flusso del gas, poiché si può formare una miscela anche più esplosiva di aria e di gas.
Se lo scopo di riscaldare le “camere a gas” era davvero quello di rendere più efficienti le gasazioni con lo Zyklon e con il monossido di carbonio in bottiglia quando faceva freddo, si sarebbero potuti utilizzare dei piccoli braceri mobili che potevano essere facilmente trasportati dentro e fuori le camere prima delle gasazioni. Non c’era ragione di utilizzare dei forni del peso di 250 chili collegati alle condutture descritte da Kozak. Poiché tali forni non avrebbero potuto essere rimossi facilmente
dalle camere immediatamente prima delle gasazioni (per poi rimetterli dentro dopo!), dobbiamo presumere che fossero ancora dentro le camere quando le vittime vi venivano condotte. Ma se i forni dovevano venire utilizzati prima delle gasazioni, allora ci sarebbe stato il rischio che le superfici metalliche riscaldate del forno o i resti ancora incandescenti del carburante avrebbero infiammato la miscela di monossido di carbonio e di aria.
La vasta opera di tubazioni nelle camere, come è stata descritta da Kozak, in realtà smentisce l’asserzione che i forni venivano utilizzati per riscaldare l’aria prima delle gasazioni. Poiché in questo caso c’era solo il bisogno di riscaldare l’aria fino alla temperatura [normale] della stanza, o a una temperatura di poco superiore, sarebbero stati pienamente sufficienti dei braceri portatili, anche durante l’inverno. Non vi sarebbe stato bisogno di tubi che correvano sotto il pavimento e sui muri. Tali installazioni indicano piuttosto che l’aria delle camere doveva venire riscaldata decisamente al di sopra della temperatura normale della stanza – come è il caso delle camere di disinfestazione ad aria calda.
In Auschwitz: Technique and Operation of the Gas Chambers, Jean-Claude Pressac cita un “Medical Field Manual: Field Sanitation” [Manuale medico da campo: misure igieniche da campo], pubblicato nel 1940 dal Ministero della Guerra americano:
“173: DISINFESTATORI IMPROVVISATI AD ARIA CALDA:
Il vestiario e le attrezzature possono essere messe dentro forni, scatole o bidoni ed essere sottoposti a riscaldamento a secco. Piccoli edifici o rifugi possono essere riadattati in disinfestatori ad aria calda installando un impianto di riscaldamento che riscalderà l’aria fino a 150 gradi F [ahrenheit=71 gradi]. Il vestiaro dovrebbe essere appeso in modo sciolto ed esposto per circa trenta minuti”.[11]
Così, quando Pressac scrisse nel 1995 il suo sacrilego articolo su Historama, era pienamente consapevole che baracche come quelle descritte nella testimonianza di Kozak possono essere riadattate a camere di disinfestazione ad aria calda.
Inoltre, si potrebbe far notare che la presenza dei forni di Kozak nelle “camere a gas” avrebbe costituito un ostacolo al processo di gasazione. Prima di tutto, avrebbero occupato una parte dello spazio della stanza, riducendo così la capienza di ogni camera; e secondariamente, i forni ancora caldi avrebbero provocato il panico delle vittime che, pressate, sarebbero finite a contatto con essi, rendendo più difficile il riempimento delle camere.
Le presunte gasazioni con lo Zyklon B
Nel manuale tedesco “Direttive per l’uso dell’acido prussico (Zyklon) per la distruzione dei parassiti (disinfestazione)”, presentato al Tribunale Militare Internazionale di Norimberga come Documento NI-9912, apprendiamo delle precauzioni necessarie quando si usa lo Zyklon B. Tra le altre cose, veniamo informati che lo spazio dell’edificio dove la gasazione deve avere luogo deve essere attentamente sigillato, e che la presenza di “condutture di riscaldamento, condutture d’aria, spaccature nei muri, etc.” possono pregiudicare del tutto l’esecuzione della gasazione.[12]
Nello stesso manuale leggiamo anche che “ogni persona deve essere sempre capace di dimostrare di avere l’autorizzazione ufficiale per l’uso dell’acido prussico”. In esso viene inoltre detto che “le persone non addestrate e le persone addestrate ma che non hanno ancora l’autorizzazione non possono essere chiamate a collaborare a operazioni di gasazione, né devono essere portate dentro stanze riempite con il gas”. Il primo staff di Bełżec venne selezionato esclusivamente dal programma di eutanasia T4, dove le uccisioni erano state presuntamente attuate utilizzando il monossido di carbonio in bottiglia, non lo Zyklon B. Non c’è nessuna indicazione che Oberhauser o chiunque altro nel campo avesse effettuato l’addestramento richiesto per l’utilizzo in sicurezza dello Zyklon B. Ci si può inoltre chiedere dove le SS prendessero il gas. Non era certo disponibile in Polonia, ma doveva essere richiesto alle ditte di proprietà del governo tedesco per mezzo di un processo burocratico alquanto intricato.
La baracca descritta da Kozak, il presunto edificio della prima fase delle gasazioni, era adatta per gasazioni con Zyklon B? Il cronista ortodosso di Bełżec, Robin O’Neil, scrive nel suo libro – disponibile in rete – Belzec: Stepping Stone to Genocide [Belzec: passo verso il genocidio]:
“Le operazioni del campo in quelle prime settimane non erano senza difficoltà. La camera a gas non era nulla più di una baracca di legno. Per mascherare l’inganno, le false docce che Fuchs non era stato in grado di installare in precedenza, vennero ora installate e vennero esposti dei segnali che indicavano la presenza di un bagno. Nonostante tutti i loro sforzi, la squadra dei carpentieri non riuscì a sigillare le porte. Secondo Werner Dubois, per ogni operazione di gasazione nella baracca di legno, bisognava ammucchiare della sabbia contro la porta esterna per ovviare al problema. Dopo la gasazione, la sabbia doveva venire rimossa per permettere l’accesso ai cadaveri”.[13]
E’ davvero logico pensare che lo staff tedesco, a rischio delle proprie stesse vite, avrebbe eseguito delle gasazioni con Zyklon B in una baracca di legno che nonostante gli sforzi non potè essere sigillata?
Excursus: Kozak e le “elettrocamere” di Bełżec
Come forse è risaputo, i rapporti propagandistici e i resoconti anonimi che circolavano durante la guerra e nel primo anno dopo la sua conclusione sostenevano che innumerevoli migliaia di ebrei polacchi erano stati uccisi a Bełżec in grandi camere della morte per mezzo della elettroesecuzione. In un rapporto consegnato al governo polacco in esilio a Londra, il 10 Luglio del 1942, leggiamo:
“Quando vengono selezionati, gli uomini vanno in una baracca sulla destra, le donne in un’altra sulla sinistra, per spogliarsi, presuntamente per fare un bagno. Poi i due gruppi si riuniscono per entrare in una terza baracca con una piastra elettrica, dove ha luogo l’esecuzione. I corpi vengono quindi portati per ferrovia in una fossa, profonda circa 30 metri, situata fuori del recinto”.[14]
Nel rapporto Hinrichtungs– und Vernichtungslager Belzec, del 1944, il delegato del World Jewish Congress Abraham Silberschein descrisse il presunto procedimento di sterminio in questo modo:
“Dopo essere stati scaricati, gli uomini vengono diretti sulla destra, le donne nella baracca a sinistra. Viene ordinato loro di spogliarsi e di prepararsi alla morte. Devono poi entrare in una terza baracca, che contiene un forno elettrico. Le esecuzioni hanno luogo in questa terza baracca. Dopo di ciò, i cadaveri vengono trasportati in treno in una fossa oltre il recinto di filo spinato”.[15]
La storia delle elettrocamere raggiunse il suo apice nel libro di Stefan Szende Den Siste Juden Från Polen (“L’ultimo ebreo dalla Polonia”), pubblicato a Stoccolma nel 1944, in cui lo scenario delle elettroesecuzioni è stato fuso con un ridicolo resoconto di cremazione di massa:
“Quando i carichi di ebrei nudi arrivavano, essi venivano sospinti in una grande sala capace di contenere diverse migliaia di persone. Questa sala non aveva finestre e il suo pavimento era di metallo. Quando gli ebrei stavano tutti dentro, il pavimento di questa sala si abbassava come un ascensore in una grande cisterna d’acqua sottostante fino a quando gli ebrei si trovavano con l’acqua fino alla vita. Poi una potente scarica elettrica veniva convogliata sul pavimento e in pochi secondi tutti gli ebrei, a migliaia per volta, erano morti.
Il pavimento di metallo poi risaliva di nuovo e l’acqua veniva eliminata. I cadaveri degli ebrei massacrati stavano ora tutti ammucchiati sul pavimento. Veniva quindi azionata un’altra scarica e il pavimento di metallo diventava rapidamente incandescente, in modo tale che i cadaveri venivano cremati come in un crematorio e rimanevano solo le ceneri.
Il pavimento veniva poi inclinato e le ceneri scivolavano in contenitori già pronti. Il fumo dell’operazione veniva smaltito da grandi ciminiere”.[16]
E’ probabile che la vista dei muri e del pavimento foderati di metallo delle camere di disinfestazione ad aria calda abbia ispirato i propagandisti clandestini ad escogitare la storia raccapricciante ma anche palesemente assurda delle camere di elettroesecuzione di Bełżec.
Conclusione
Gli scrittori sterminazionisti hanno detto che le gasazioni omicide sperimentali con monossido di carbonio in bottiglia e con Zyklon B vennero eseguite nel campo di Bełżec all’inizio del 1942. La diceria si fonda principalmente sulle dichiarazioni rese dall’ex SS di Bełżec Josef Oberhauser all’inizio degli anni ’60. Basandosi sulla dichiarazione del 14 Ottobre del 1945 fornita dal testimone polacco Stanislaw Kozak, che descrive una baracca contenente tre stanze ognuna provvista di un grande forno, alcuni di questi scrittori dicono anche che i forni venuvano utilizzati per riscaldare l’aria delle “camere a gas” nei giorni in cui faceva freddo, per rendere più efficienti le gasazioni.
Ma come è stato mostrato in questo articolo, quando le testimonianze oculari vengono esaminate e confrontate con dei dati scientifici, come pure con la documentazione sull’uso dello Zyklon B, esse indicano un certo numero di fattori i quali, messi assieme, rendono tali gasazioni omicide sperimentali decisamente inverosimili. In realtà, ogni elemento indica che le installazioni descritte da Kozak erano innocue componenti di un impianto di disinfestazione ad aria calda.
[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://www.codoh.com/gcgv/gckozak.html
[2] Carlo Mattogno, Belzec in Propaganda, Testimonies, Archeological Research, and History, Theses & Dissertation Press, Chicago, 2004, p. 45.
[3] Ibidem.
[4] Mattogno, op. cit., p. 46, nota 109.
[5] Mattogno & Graf, Concentration Camp Majdanek. A Historical and Technical Study, Theses & Dissertation Press, Chicago, 2003, p. 130.
[6] Jean-Claude Pressac, “Enquête sur les camps de la morte”, in Historama, n°34, 1995, pp. 120 e seguenti; citato in Graf & Mattogno, Treblinka. Extermination Camp or Transit Camp?, Theses & Dissertation Press, Chicago, 2003, p. 291.
[7] http://www.deathcamps.org/belzec/belzec.html
[8] Citato in Klee e altri, The Good Old Days, Free Press, New York, 1991, p. 230.
[9] Dichiarazione di Josef Oberhauser a Monaco il 12 Dicembre del 1960, ZStL, Az: 208 AR-Z 252/59, citato in: Michael Tregenza, “Belzec – Das vergessene Lager des Holocaust”, in: I. Wojak, P. Hayes (editori), “Arisierung” im Nationalsozialismus, Volksgemeinschaft, Raub und Gedächtnis, Campus Verlag, Frakfurt/Main, New York, 2000, pp. 248-249, 263.
[10] Disponibile in rete all’indirizzo: http://www.iapa.ca/pdf/carbon_monoxide_feb2003.pdf (p. 3).
[11] Jean-Claude Pressac, Auschwitz: Technique and Operation of the Gas Chambers, Beate Klarsfeld Foundation, New York, 1989, p. 66.
[12] Riprodotto in ibid, pp. 18-20.
[13] http://www.jewishgen.org/Yizkor/belzec1/bel081.html
[14] Citato in Carlo Mattogno, Belzec…, p. 12. E’ degno di nota che il numero di baracche coincide con quello di Kozak, sebbene il loro scopo rispettivo differisca.
[15] Ibid, p. 16.
[16] Citato in ibid, pp. 18-20.
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