Di Thomas Kues (2008)[1]
Nel 1999, un articolo di Tregenza intitolato “Belżec – Das vergessene Lager des Holocaust” (Belżec – Il campo dimenticato dell’Olocausto) venne pubblicato in un’antologia tedesca di scritti accademici sull’Olocausto.[2] Quest’articolo fu in seguito criticato dal ricercatore revisionista italiano Carlo Mattogno nel suo libro del 2004 sul campo di Belżec[3]. In questo breve articolo, commenterò qualche aspetto dell’articolo di Tregenza non trattato da Mattogno, e amplierò su qualche punto la sua critica.
Il metodo di Michael Tregenza
Come è stato sottolineato da Mattogno, il metodo di Tregenza per riesaminare quello che viene divulgato sulla storia del campo consiste nel dichiarare inattendibili i due testimoni-chiave Kurt Gerstein e Rudold Reder, gettando a mare il loro imbarazzante carico di menzogne e di assurdità, e nel sostituirli con una schiera di testimoni minori riconducibili a tre categorie principali:
1. Un gruppo di polacchi del luogo interrogati dagli inquirenti polacchi e sovietici nel 1945.
2. Testimonianze rilasciate dall’ex personale SS del campo durante gli anni ’60.
3. Un gruppo di polacchi del luogo intervistati da Tregenza tra il 1993 e il 1999.
Sulla terza categoria, Tregenza scrive:
“Nel corso degli ultimi sei anni, il sottoscritto è andato diverse volte a Belżec (poiché vivo a Lublino) dove ha intervistato numerosi testimoni oculari. Molti di loro non avevano mai parlato in precedenza, per paura di venire incriminati. Tra questi testimoni oculari vi sono Jan K., Bronislaw R., e Bronislaw C., che contribuirono alla costruzione sia del campo che delle prime camere a gas, il macchinista ferroviario Stefan K., che guidava i treni dei deportati fin dentro il campo, così come i controllori della stazione ferroviaria di Belżec che lavoravano per la Ostbahn, come Mieczysław O. e Teofil P. Solo due testimoni, ritenuti dagli altri paesani colpevoli di collaborazionismo e di un certo numero di crimini, si sono rifiutati di parlare con il sottoscritto di quello che accadde nel 1942”.[4]
Come ogni esperto di testimonianze oculari e di memoria umana potrà confermare, l’attendibilità di una testimonianza diminuisce con il progredire della distanza temporale dai (presunti) avvenimenti. Persino il trascorrere di pochi anni può influire molto negativamente sull’attendibilità di quello che il testimone ha da dire. La ragione è molto semplice: più passa il tempo più il testimone potrà essere influenzato da altre testimonianze, dai resoconti dei media, dai libri, dalle dicerie, e persino dalla propria immaginazione. Non si tratta solo del fatto che il testimone può consapevolmente attingere da altre fonti, rispetto alla propria esperienza diretta, ma si tratta anche del fatto che i testimoni possono arrivare a credere di aver vissuto personalmente i fatti attinti da altre fonti, confondendo quanto è stato letto, sentito o immaginato con quanto è stato effettivamente vissuto. La possibilità che questo accada aumenta con il passare del tempo.
Un esempio significativo di questo metodo discutibile [di ricerca delle testimonianze] è quello di Michał Kuśmierczak. Su questo paesano di Belżec, Tregenza ci racconta quanto segue:
“L’elettricista Michał K. installò cavi e luci nell’edificio della seconda camera a gas, il cosiddetto “Stiftung Hackenholt”, e si dice che abbia assistito saltuariamente alle gasazioni. A quanto mi consta, questo è il solo caso di un polacco direttamente coinvolto – in modo volontario e retribuito – nello sterminio degli ebrei in un campo di sterminio”.
Da dove prende Tregenza questa informazione? Se leggiamo la relativa nota a piè di pagina, apprendiamo che:
“Michał K. fu interrogato a Belżec, dalla Commissione Polacca per i Crimini di Guerra, il 16 Ottobre del 1945, e a Tomaszów Lubelski il 19 Gennaio del 1946. Egli ammise liberamente di aver prestato servizio nel campo come elettricista e fornì una descrizione dettagliata del procedimento di gasazione per il protocollo (OKBL, Az: 1604/45-Zamo). Fu solo nel 1998 che alcuni paesani informarono il sottoscritto sulla partecipazione di Michał K. alle gasazioni”.
In altre parole: l’affermazione che Michał Kuśmierczak abbia preso parte alle gasazioni omicide degli ebrei si basa semplicemente sulle accuse fatte da alcuni compaesani anonimi più di cinquant’anni dopo i fatti. La possibilità che questi testimoni anonimi possano avere avuto qualcosa di personale contro Kuśmierczak e perciò abbiano voluto infangarne la (probabilmente postuma) reputazione non viene mai menzionata. La possibilità che le indagini sui crimini di guerra da parte di una nazione totalitaria, controllata dai comunisti, come la Polonia dopo la seconda guerra mondiale, non siano conformi ai secolari criteri occidentali di giustizia e di obbiettività, sembra ugualmente non sfiorare Tregenza. Che non ha fatto nessun tentativo per capire quale fosse la situazione dei paesani di Belżec durante i primi tempi dell’occupazione sovietica. In realtà può essere stato molto probabile che le persone del posto vennero minacciate di reclusione, deportazione e persino di condanna a morte, come punizione per “aver collaborato col nemico” se non avessero confermato l’andamento generale delle accuse sul campo della morte.
Inoltre, che probabilità c’è che le SS abbiano coinvolto un civile polacco nelle loro presunte gasazioni, quando avevano a disposizione un centinaio di ausiliari ucraini, come pure svariate centinaia di Arbaitsjuden?
Contatti tra il campo e i paesani di Belżec
Mattogno ha già commentato la descrizione di Tregenza della paradossale “trasparenza” del presunto campo della morte, così i miei commenti su questo argomento saranno brevi.[5] Prima di tutto, i contatti risaputi tra il “campo della morte” e i paesani di Belżec possono essere riassunti nel modo seguente:
1. Venti paesani, incluso il testimone Kozak, impiegati nella costruzione del campo, compreso il presunto primo edificio di gasazione, alla fine del 1941.
2. Quattro paesani (Dmitri N., Mieczysław Kudyba, Waclaw O., e Michał Kuśmierczak) impiegati dentro il campo, come meccanici ed elettricisti.
3. I paesani Eustachy Ukraiński e Wojciech I., a cui venne permesso di scattare fotografie allo staff del campo, all’interno del campo.
4. Gruppi di detenuti ebrei che lavoravano fuori del campo in varie località, incluso il paese di Belżec (vedi le testimonianze di Heinrich Gley, maria Daniel, Tadeusz Miesiewicz e Rudolf Reder).
5. Numerosi contatti privati tra i paesani di Belżec e lo staff del campo.
Incredibilmente, non venne presa nessuna misura, da parte delle SS, per far tacere i polacchi del luogo che erano entrati in contatto con il “campo della morte” e che potevano prendere conoscenza di prove incriminanti (se dobbiamo credere alle accuse di sterminio) – e questo nonostante il fatto che i tedeschi avessero tutto il tempo e la possibilità di agire in tal modo durante la lunga fase di liquidazione del campo (dal Dicembre del 1942 al Settembre del 1943).
Secondo Tregenza (che non cita fonti al riguardo), il testimone Wojciech I. consegnò qualcuna di queste foto alla formazione partigiana polacca dell’Arma Krajowa, ma in seguito distrusse la maggior parte di quelle in suo possesso “poiché si rese conto di quale pericolo comportasse il loro possesso”.[6] Ma se le cose stanno così, perché le SS – innanzi tutto – gli permisero di scattare tali foto? E perché questo testimone presuntamente pericoloso non venne arrestato e le sue foto non furono confiscate? E’ possibile che le foto in realtà furono distrutte dopo la guerra, o sequestrate dai servizi sovietici?
I documenti segreti
I documenti su Belżec (verbali degli interrogatori, dichiarazioni giurate e rapporti d’indagine) conservati nel Zentralen Stelle di Ludwisburg (il centro ufficiale per la caccia ai nazisti della Repubblica Federale tedesca) ammontano a più di 100.000 pagine.[7] Oltre a questo materiale esistono altri due gruppi di documenti, uno negli archivi della polizia polacca a Lublino, e uno nell’archivio dell’ex KGB a L’výv. Quest’ultimo riguarda i processi show imbastiti dai sovietici contro gli ex-ausiliari ucraini in forza al campo, mentre il primo riguarda sia i paesani di Belżec accusati di aver collaborato con le SS, sia quelli che hanno lavorato per la polizia segreta comunista dopo la guerra. Una parte di questa documentazione, ci informa Tregenza, è scomparsa.[8]
Ci è stato detto ripetutamente che le forze tedesche coinvolte nell’”Olocausto” hanno cercato di cancellare le tracce distruggendo ogni tipo di prova. Eppure, a quanto pare, nessuna delle SS di Belżec pensò di bruciare la documentazione relativa ai trasporti conservata nella stazione ferroviaria di Belżec. Al contrario, tale documentazione venne distrutta il 4 Luglio del 1944, quando un aereo sovietico sganciò una bomba contro 400 vagoni carichi di munizioni che sostavano nella stazione ferroviaria. Le esplosioni e gli incendi conseguenti distrussero completamente gli edifici della stazione. Circa tre settimane dopo, il 23 Luglio, Belżec venne “liberata” dall’esercito sovietico.[9]
Le cifre delle vittime e la capienza delle fosse comuni
Quando si arriva al numero delle vittime ebree presuntamente sterminate a Belżec, Tregenza propone una cifra molto più alta di quella comunemente accettata all’epoca della pubblicazione del suo articolo (1999):
“Durante il periodo relativamente breve della sua esistenza – le installazioni di sterminio funzionarono per nove mesi, nel 1942 – a Belżec furono sterminati diverse centinaia di migliaia di ebrei. Oggi si parla ufficialmente di “almeno 600.000 persone assassinate”. Tuttavia, alla luce delle nuove ricerche e dei nuovi scavi, si può presumere una cifra molto più alta – probabilmente vicina a un milione”.[10]
Nel seguente passaggio del suo articolo, Tregenza spiega il suo ragionamento per questa cifra molto più alta:
“Il rapporto della Commissione Polacca per le Indagini sui Crimini di Guerra, pubblicato a Zamość nell’Aprile del 1946, è basato sulla testimonianza del capostazione di Belżec, Alojzy Berezowski, come pure su quella di altri impiegati delle ferrovie. Il rapporto giunse alla conclusione che nella stazione ferroviaria di Belżec arrivarono, tra la metà di Marzo e l’inizio di Dicembre del 1942, un totale di 439 trasporti provenienti da Lemberg e 57 provenienti da Lublino, ognuno dei quali portava una media di 3.000 ebrei. Questo vorrebbe dire un totale di 1.488.000 vittime. Non sono stati compresi in questo conteggio 52 trasporti che non è stato possibile accertare”.[11]
Così abbiamo un ferroviere locale con una buona conoscenza presunta dei trasporti degli ebrei che parla di almeno un milione e mezzo di vittime! Che cosa deve presentare di più, Tregenza, come prova? Continuiamo a leggere la descrizione di Tregenza della presunta cremazione all’aperto delle vittime delle gasazioni:
“I testimoni del villaggio sostengono che vennero utilizzate fino a cinque pire, mentre le SS nel corso del processo di Monaco del 1963/64 parlarono di due pire. Secondo le loro dichiarazioni, vennero bruciate in queste due pire almeno 500.000 persone. Se supponiamo un minimo di 500.000 cadaveri cremati per due pire, per cinque pire dobbiamo supporre un numero di vittime molto più alto – probabilmente anche due volte superiore – della cifra ufficialmente accettata di 600.000. La commissione per i crimini di guerra tedeschi in Polonia, costituitasi nel 1945, giunse alla conclusione che il campo di Belżec aveva funzionato per 133 giorni e che durante questo periodo arrivavano giornalmente al campo trasporti di quaranta vagoni alla volta, contenenti circa 4.000 ebrei. Questo significa un minimo di 532.000 vittime. Stime ulteriori si basarono su un minimo di 680.000 arrivi al campo. Nel periodo delle gasazioni più numerose, e cioè durante l’Agosto e il Settembre del 1942, arrivavano giornalmente tre o più trasporti, che spesso contavano fino a 60 vagoni, con ogni vagone che conteneva almeno cento persone. Questo significa una cifra giornaliera delle vittime di circa 12.000 persone. Rudolf Reder, reduce del campo, conferma questa cifra. Altri testimoni, tra cui figurano membri dello staff della stazione ferroviaria di Belżec, affermano che in certi giorni arrivavano alla stazione 15.000 e più ebrei. Non tutti, comunque, venivano gasati il giorno del loro arrivo. Se supponiamo che questo periodo di tempo equivalesse a 15 giorni, in cui venivano gasate in media 5.000 vittime in più, oltre alle 4.000 vittime giornaliere menzionate in precedenza, raggiungiamo una cifra di almeno 930.000 vittime. E’ difficile da credere, che potessero essere uccise così tante persone in un periodo di tempo così breve – solo nove mesi – sotto la supervisione di non più di quindici SS”.[12]
Il ragionamento di Tregenza si basa quindi interamente sulle testimonianze oculari. Il modo in cui coniuga l’affermazione di Heinrich Gley sul numero delle vittime e delle pire con quelle dei paesani su un numero più alto di pire, per poter raggiungere una cifra delle vittime “due volte superiore” di quella, considerata ufficiale, di 600.000, è particolarmente illuminante. Mai Tregenza cerca di giustificare la cifra da lui proposta basandosi sulle prove documentarie, come gli elenchi dei trasporti o i dati demografici.
Retrospettivamente, il problema più grande delle “almeno” 930.000 vittime di Belżec asserite da Tregenza, è rappresentato dal fatto che il cosiddetto telegramma Höfle, scoperto nel 2000 dallo storico Peter Witte, mostra che il numero totale degli ebrei deportati in questo campo nel periodo – inferiore a un anno – in cui fu in funzione, non è superiore alle 434.058 unità.[13] Alla luce del telegramma Höfle, le dichiarazioni dei ferrovieri su cui si basa Tregenza possono essere considerate sia come esagerazioni, che come manipolazioni, che come menzogne deliberate.
E’ sbalorditivo soprattutto il fatto che Tregenza abbia proposto questa cifra assurda delle vittime nel momento in cui era perfettamente consapevole dei risultati delle trivellazioni e degli scavi di Andrzej Kola nel sito del campo nel periodo 1997-1999. In realtà, all’epoca in cui l’articolo che qui critichiamo venne pubblicato, egli aveva già redatto un manoscritto intitolato “Report on the Archeological Investigation at the Site of the Former Nazi Extermination Camp in Belżec, Poland: 1997-1999” [Rapporto sull’indagine archeologica nel sito dell’ex campo di sterminio di Belżec, in Polonia: 1997-1999].[14] Poiché egli potè consultare i dati sugli scavi, e poiché le misurazioni delle fosse comuni vennero ultimate nel 1998, Tregenza doveva sapere che il volume totale delle fosse venne stimato in 21.310 metri cubi.[15] Questo dato può, a sua volta, significare solo che Tregenza considera interamente plausibile che (930.000/21.310=) potessero essere ammucchiati nelle fosse comuni 43.6 cadaveri per metro cubo!
I resti degli edifici delle due presunte camere a gas
Tregenza, nel suo poscritto agli scavi di Kola, sostiene che gli archeologi sono riusciti a trovare i resti non solo di uno, ma di entrambi gli edifici delle due presunte camere a gas di Belżec:
“Nella sede del Lager II è stato trovato un basamento di cemento, misurante 15 metri per 4, e diviso in quattro grandi stanze di uguale dimensione. Si ritiene che questo sia quello che rimane delle camere a gas designate come “Stiftung Hackenholt”. Un piccolo basamento di cemento, ubicato vicino all’ex cancello di entrata, è presumibilmente un resto della prima camera a gas. Questo basamento comunque non è stato scavato, poiché la più parte di esso giace sotto la strada costruita dopo la guerra”.[16]
L’affermazione suddetta è completamente in contrasto con quello che leggiamo nel rapporto ufficiale sugli scavi redatto da Andrzej Kola nel 2000. Nel capitolo che tratta dei resti degli edifici nel sito dell’ex campo, Kola discute un oggetto designato come “Edificio G”. Questo è chiaramente lo stesso edificio (o piuttosto il negativo dell’edificio) che Tregenza identifica con i resti del secondo edificio presuntamente destinato alle gasazioni (“Stiftung Hackenholt”), poiché le misure fornite sono identiche e poiché tra i ritrovamenti di Kola non vi è nessun altro resto di edificio che potrebbe essere confuso con questo. Il professor Kola descrive l’”Edificio G” nel modo seguente:
“Le trivellazioni esplorative hanno indicato strutture archeologiche non meglio definite di carattere non funebre nella zona settentrionale del campo, nell’area nord-occidentale di 16 ettari. Nella stessa zona sono state condotte delle trivellazioni di forma e dimensioni differenti (trivellazioni 15/99, 15a/99 e 15b/99). Esse hanno rivelato l’esistenza di un negativo di edificio non meglio precisato, fatto completamente di legno, parzialmente sepolto nel terreno, totalmente smantellato. Sul fondo, i resti avevano la forma di un rettangolo regolare, con i lati che misuravano circa metri 3.5×15, il cui fondo giaceva orizzontalmente alla profondità di circa 80 cm. Il materiale di scavo conteneva humus sabbioso scuro, chiaramente estratto dal fondo del terreno sabbioso. Il contenuto culturale consisteva di frammenti di carta catramata, di chiodi di ferro provenienti probabilmente dall’edificio soprastante. Furono trovati inoltre frammenti di denti, pettini di donna, e due monete polacche. L’edificio di legno fungeva probabilmente da camera a gas nella seconda fase operativa del campo, nell’autunno e nell’inverno del 1942. Questa interpretazione potrebbe essere confermata dalla sua ubicazione nella pianta del campo. Le trivellazioni esplorative nella zona nord-orientale e orientale del campo hanno trovato solo fosse comuni. L’ubicazione della camera a gas vicino ai luoghi di sepoltura nella seconda fase dell’esistenza del campo è stata confermata da alcune testimonianze”.[17]
Come già è stato notato da Carlo Mattogno, qui Kola affronta le testimonianze oculari in modo altamente contraddittorio.[18] Poiché il testimone-chiave ebreo, Rudolf Reder, dichiarò che il secondo edificio di gasazione era una struttura di cemento, Kola afferma che la testimonianza di Reder è “inattendibile”. D’altro canto, viene confermata la funzione dell’edificio quale sito destinato alle gasazioni, perché la sua ubicazione concorda presumibilmente con quella di “qualche testimonianza oculare” – ma la sola testimonianza cui si riferisce Kola in questo caso è quella dell’”inattendibile” Rudolf Reder! Kola inoltre ignora completamente il fatto che il secondo edificio di gasazione (“Stiftung Hackenholt”) come viene descritto da Reder, Gerstein e altri – una struttura con sei camere a gas che misuravano ognuna almeno metri 4×5, disposte tre per lato lungo un corridoio – non avrebbe mai potuto essere contenuto in un edificio di legno di metri 15×3.5.[19]
Tregenza, che era presente agli scavi,[20] afferma che i resti dell’edificio consistevano di un “basamento di cemento” (Betonfundament), mentre Kola scrive nel suo rapporto che erano “completamente di legno”. Poiché nella foto riprodotta da Kola nell’immagine 78 (descritta come: “Edificio G. I resti dell’edificio e il profilo ad una profondità di 60-70 cm”) non mostra nessuna traccia visibile di cemento (o di mattoni) possiamo presumere che l’affermazione di Kola sia esatta. Inoltre, Kola non fa menzione del fatto che l’edificio fosse diviso in “quattro grandi stanze di uguale misura”, come detto da Tregenza. Poiché nelle altre descrizioni tali divisioni vengono sempre menzionate quando vi sono, possiamo ritenere che non è stata trovata nessuna divisione del genere. Ne consegue, perciò, che nel 1999 Tregenza ha fatto affermazioni non vere riguardo all’”Edificio G”, o per mancanza di informazioni (la qualcosa sembra improbabile a causa delle sue conoscenze privilegiate) o per ingannare i propri lettori, facendo loro credere che era stata trovata una struttura che (almeno in una certa misura) quadrava con le affermazioni fatte relativamente alla “Stiftung Hackenholt”.
E che dire, allora, dei presunti resti del primo edificio di gasazione? Dopo essersi avviluppato in un tipico disastro di ragionamenti contradittori,[21] Kola afferma che, mentre non è stato possibile ritrovare i resti dell’edificio di gasazione della prima fase, la struttura deve comunque essere esistita da qualche parte a sud-est dell’”edificio D”, il garage del campo.[22] L’esperto di Belżec, Robin O’Neil, ovviamente imbarazzato dai pasticci di Kola riguardo all’”edificio G”, ha dovuto ammettere, in un articolo del 1999, che:
“Non abbiamo trovato traccia delle baracche per le gasazioni, sia per quanto riguarda la prima che la seconda fase della costruzione del campo”.[23]
Nessun “piccolo basamento di cemento”, ubicato vicino al cancello principale dell’ex campo o altrove, viene menzionato da Kola. Si potrebbe argomentare che un tale reperto non potrebbe apparire nel rapporto sugli scavi se fosse ubicato fuori del perimetro dell’area in cui sono state compiute le trivellazioni, ma d’altronde sembra strano che Kola non abbia menzionato – nemmeno di passaggio o in una nota a piè di pagina – un tale reperto nel suo rapporto di 84 pagine, data la sua importanza fondamentale.
In un articolo disponibile in rete sugli scavi di Kola, Robin O’Neil scrive che:
“Le fondazioni di cemento, o parti di queste, della baracca originale per le gasazioni, potrebbero trovarsi ancora sotto la fascia d’erba alta tra il campo del guardaboschi a sinistra del cancello di accesso all’area del museo e il sentiero lastricato che corre lungo la strada, e in un punto a metà circa tra il sentiero che porta al cancello d’entrata e l’estremità settentrionale del campo. Poichè il guardaboschi ha riferito agli autori di aver danneggiato, in qualche occasione, i macchinari agricoli su una struttura di cemento vicino all’estremità orientale del suo campo, ciò suggerisce che una tale costruzione potrebbe essere identificata con i muri della fossa in cui era posto il motore per le gasazioni – a 30 metri dalla baracca per le gasazioni”.[24]
La nozione, palesemente assurda, che il motore utilizzato nel presunto primo edificio con camera a gas fosse posizionato in una fossa, deriva dalle dichiarazioni di un solo testimone, il suddetto polacco del luogo Michał Kuśmierczak, che afferma di aver sentito dagli ucraini che lavoravano al campo che il motore era nascosto tre metri sotto il terreno, a una distanza di trenta metri dalla camera a gas![25] Questa è la sola base probatoria della presunta “scoperta” dei resti del presunto primo edificio di gasazione.
Colpevole fino a prova contraria
Alla fine del suo articolo, Tregenza dedica un paragrafo a descrivere il destino dei resti mortali degli ex membri dello staff dell’”Operazione Reinhardt” che morirono combattendo contro i partigiani nel 1944 nell’Italia settentrionale. La maggior parte di costoro vennero sepolti nel cimitero militare tedesco di Costermano, vicino la costa adriatica. In una nota a piè di pagina relativa a questo passaggio, Tregenza osserva:
“Tutto sommato, dodici membri del Sonderkommando “Aktion Reinhardt” delle SS di Wirth furono sepolti a Costermano. Nel 1989, venne chiesto a Bonn dal governo italiano che i resti dei criminali di guerra Wirth, Schwarz e Franz Reichleitner, l’ex comandante di Sobibór, venissero riesumati e portati via dal cimitero. Nonostante un contrasto, tra Roma e Bonn, durato quattro anni, e nonostante un’ampia copertura mediatica, sia in Germania che in Italia, i cadaveri non vennero mai riesumati. Nel Dicembre del 1999, il Volksbund deutsche Kriegsgräberfürsorge (VdK) [Servizio per le onoranze funebri ai caduti], disse al sottoscritto che agli occhi del VdK “Wirth (…) non è un criminale di guerra, solo un morto in guerra”. [26]
Naturalmente, i VdK hanno perfettamente ragione nel non aver trattato Wirth e i suoi colleghi come criminali di guerra, cisto che non furono mai messi sotto processo e non furono trovati colpevoli di crimini di guerra. Tregenza, definendoli “criminali di guerra”, a quanto pare crede, contrariamente alla tradizione giuridica occidentale, che l’accusato sia colpevole fino a prova contraria. In realtà, le sole prove che potrebbero essere presentate in un tribunale contro questi uomini, consistono di dichiarazioni testimoniali indimostrate, assurde e contraddittorie, assieme a interpretazioni fraudolente di ritrovamenti fatti durante indagini archeologiche condotte in modo dubbio. Alcuni membri dello staff Reinhardt possono essere stati ritenuti colpevoli nei cosiddetti – e fasulli – “processi ai nazisti” condotti in Germania, ma il verdetto della storia probabilmente li assolverà, come assolverà i loro colleghi morti o dispersi, dalle accuse gettate loro addosso dalle potenze internazionali odierne.
Conclusione
L’articolo di Michael Tregenza del 1999 sul “campo della morte” di Belżec dimostra in modo eloquente i metodi impiegati dal suo autore. Sono le testimonianze oculari, e non i documenti d’epoca, ad essere utilizzate per produrre una cifra delle vittime che si è dimostrata in seguito assolutamente esagerata. I risultati dell’indagine archeologica sono stati travisati. Testimonianze oculari rese mezzo secolo dopo gli avvenimenti presunti, come pure le testimonianze prodotte sotto le “commissioni d’inchiesta” polacco-sovietiche, vengono trattate come Vangelo. In fatto che Tregenza, negli ultimi dieci anni, non abbia pubblicato praticamente nulla su Belżec non ci sorprende affatto.
[2] Tregenza, Michael, “Belżec – Das vergessene Lager des Holocaust”, in: Wojak, Irmtrud, Peter Hayes (editori), “Arisierung” im Nationalsozialismus, Volksgemeinschaft, Raub und Gedächtnis, Campus Verlag, Frankfurt/Main, New York, pp. 241-267. Tutte le traduzioni da questo articolo sono state fatte dall’autore (Thomas Kues).
[3] Carlo Mattogno, Belżec in Propaganda, Testimonies, Archeological Research, and History, Theses & Dissertation Press, Chicago, 2004.
[4] Tregenza, p. 246.
[5] Mattogno, pp. 42-44.
[6] Tregenza, p. 247.
[7] Ibid, p. 243.
[8] Ibid, pp. 243-244.
[9] Ibid, pp. 254-255.
[10] Ibid, p. 242.
[11] Ibid, p. 258, nota 4.
[12] Ibid, p. 253.
[13] Peter Witte, Stephen Tyas, “A New Document on the Deportation and Murder of the Jews during “Einsatz Reinhardt” 1942”, in: Holocaust and Genocide Studies, N°3, inverno 2001, p. 469 e seguenti.
[14] Tregenza, p. 267.
[15] Andrzej Kola, Belżec, The Nazi Camp for Jews in the Light of Archeological Sources. Excavations 1997–1999, The Council for the Protection of Memory of Combat and Martyrdom/United States Holocaust Memorial Museum, Varsavia-Washington, 2000, p. 21, 40; Mattogno, p. 73.
[16] Tregenza, p. 257.
[17] Kola, p. 61.
[18] Mattogno, pp. 93-93.
[19] Il tentativo dello sterminazionista Charles A. Bay di conciliare Reder con Kola verrà esaminato da Thomas Kues in un futuro articolo.
[20] Come è stato confermato da Kola, a p. 10, nota 8. Che Tregenza abbia preso parte agli scavi è stato confermato anche da un articolo di BBC News, “Poland’s unknown death camp” [Lo sconosciuto campo della morte della Polonia], che può essere letto in rete all’indirizzo: http://news.bbc.co.uk/1/hi/programmes/from_our_own_correspondent/140464.stm . Questo articolo contiene anche un passagio interessante su Bronislaw Czachor, che insieme a Stanislaw Kozak, fu uno dei venti paesani che aiutarono a costruire il campo: “Egli ha avuto di recente un colpo e la sua conversazione è confusa – quando cioè inizia a parlare della guerra. Tutto si ingolfa. Mi ha raccontato fin nei particolari i tipi di legno che utilizzò e dove i tedeschi lo costrinsero a trasportarlo. “Ma”, gli ho chiesto, “Sapevi all’epoca quello che stavi costruendo?”. Si è confuso e ha iniziato a contraddirsi. “Lo sapeva bene”, ha sussurato la nuora, “ma senza nessuna malizia”.
[21] Mattogno, pp. 94-95.
[22] Kola, p. 67.
[23] O’Neil, Robin, “Belżec, The Forgotten Death Camp”, in: East European Jewish Affairs, 28 (2) (1998-99), p. 55.
[24] Robin O’Neil, “Belzec: Archeological Investigations”, in rete dal 2006: http://www.holocaustresearchproject.org/ar/modern/archreview.html
[25] Mattogno, pp. 46-47.
[26] Tregenza, p. 267, nota 80.
Ma ti sei mai fatto una bella scopata? Faresti bene, invece di scrivere queste cazzate