Di John Mearsheimer, 9 Dicembre 2008[1]
Per i lettori americani, la grande virtù del nuovo importante libro[2] di Avraham Burg è che dice cose su Israele e sul popolo ebreo che non si sentono praticamente mai nel discorso “mainstream” degli Stati Uniti. E’ difficile credere quanto sia stentata e prevenuta la copertura di Israele nei media americani, per non parlare del livello a cui i nostri politici hanno portato l’arte di compiacere lo stato d’Israele. La situazione è diventata così brutta nella recente campagna presidenziale che i giornalisti Jeffrey Goldberg e Shmuel Rosner – entrambi fedeli difensori d’Israele – hanno scritto pezzi intitolati “”Già abbastanza su Israele”.
Speriamo che The Holocaust is Over venga ampiamente letto e discusso, perché presenta argomenti che hanno bisogno di essere ascoltati e valutati dagli americani di tutte le convinzioni, ma specialmente da quelli che hanno un profondo attaccamento per Israele. Anche il fatto che Burg abbia scritto questo libro conta molto. Non può essere facilmente liquidato come un ebreo che odia sé stesso o come un pazzo, poiché proviene da un’importante famiglia israeliana ed è stato profondamente coinvolto dalla politica israeliana “mainstream” per gran parte della propria vita da adulto.
Burg esprime molte opinioni intelligenti nel suo libro, ma vorrei concentrarmi su quelli che ritengo siano i suoi argomenti centrali. Il suo messaggio fondamentale è che Israele si trova in guai seri a casa propria e che vi sono buone ragioni per pensare che le cose possano finire molto male in futuro. Sottolinea che Israele è molto cambiata dal 1948. Su questo punto cita sua madre: “Questo paese non è il paese che abbiamo costruito. Nel 1948 avevamo fondato un paese differente ma non so dove sia finito”. “Oggi Israele”, scrive, “è spaventosamente simile ai paesi a cui non avremmo mai voluto assomigliare”. Parlando della svolta a destra di Israele nel corso del tempo, fa l’osservazione sbalorditiva che “Gli ebrei e gli israeliani sono diventati dei delinquenti”.
Burg mette in chiaro che non mette sullo stesso piano il comportamento passato d’Israele con quello che accadde nella Germania nazista, ma nota inquietanti somiglianze tra Israele e la Germania “che precedette Hitler”. Questo suscita l’ovvia domanda: potrebbe Israele arrivare a scatenarsi in modo omicida contro i palestinesi? Burg pensa che è possibile. Scrive: “L’idea che questo non può succederci perché la nostra storia di popolo perseguitato ci rende immune dall’odio e dal razzismo è molto pericolosa. Uno sguardo dentro Israele mostra che l’erosione è incominciata”. Egli contempla persino la possibilità che vi possa essere una guerra civile all’interno d’Israele, la quale “non sarà una guerra tra membri del popolo ebreo di orientamenti o di convinzioni differenti, ma una battaglia irriducibile tra i buoni e i cattivi”.
Burg si rende conto che molti ebrei americani liquideranno i suoi argomenti perché sono così in contrasto con l’immagine di Israele che hanno nella propria testa. Perciò, ricorda al lettore: “Io vengo da lì, e i miei amici e parenti stanno ancora lì. Ascolto i loro discorsi, conosco le loro ambizioni, e sento i battiti del loro cuore. So dove sono diretti”. Ed è molto preoccupato dalla direzione che potrebbero prendere. Di nuovo, egli teme che Israele finirà per seguire le orme della Germania, dove “una lenta evoluzione alterò la percezione della realtà, al punto che la follia divenne la norma, e poi venimmo sterminati. Accadde nella terra dei poeti e dei filosofi. Lì fu possibile, e qui anche, nella terra dei profeti. La fondazione di uno stato guidato dai rabbini e dai generali non è un incubo inverosimile. So quanto problematico sia questo paragone, ma per favore aprite le vostre orecchie, i vostri occhi, i vostri cuori”.
Molti ebrei americani pensano che Israele oggi è nei guai a causa dell’antisemitismo o a causa del fatto che è circondato da pericolosi nemici che minacciano la stessa sicurezza di Israele. Gli stessi israeliani, ricorda Burg, amano sottolineare che “il mondo intero è contro di noi”. Egli liquida queste convinzioni infondate: “Oggi siamo armati fino ai denti, meglio attrezzati di ogni altra generazione della storia ebraica. Abbiamo un esercito spaventoso, un’ossessione per la sicurezza e la rete di protezione degli Stati Uniti…L’antisemitismo sembra ridicolo, persino innocuo paragonato alla forza attuale del popolo ebreo”.
Secondo Burg, i guai d’Israele vengono da sé stessa. In particolare, la causa principale dei problemi di Israele è l’eredità dell’Olocausto, che è diventato onnipresente nella vita di Israele. “Non passa giorno”, scrive, “senza una menzione della Shoah sul solo giornale che leggo, Ha’aretz”. In realtà, ai bambini israeliani viene insegnato a scuola che “siamo tutti sopravvissuti della Shoah”. Il risultato è che gli israeliani (e la maggior parte degli ebrei americani su questa questione) non riescono a pensare in modo giusto al mondo che li circonda. Pensano che chiunque li voglia catturare, e che i palestinesi non sono certo differenti dai nazisti. Data questa prospettiva disperata, gli israeliani ritengono che ogni mezzo sia giustificato per combattere i propri nemici. La conseguenza dell’argomento di Burg è che se ci fosse meno enfasi sull’Olocausto, gli israeliani cambierebbero la loro percezione degli “altri” in modo sostanziale, e questo permetterebbe loro di raggiungere un accordo con i palestinesi e di condurre una vita più pacifica e dignitosa.
C’è una certa verità in questo argomento psicologicamente difensivo, ma Burg fornisce anche molti argomenti per un’interpretazione diversa di quanto l’Olocausto sia legato alla vita israeliana. In particolare, egli mostra che la società israeliana è afflitta da una moltitudine di problemi gravi che minacciano di farla a brandelli, e che l’Olocausto “è uno strumento al servizio del popolo ebreo”, strumento che essi usano per proteggere Israele dalle critiche e per tenere a bada queste forze centrifughe. Egli identifica tre problemi basilari: 1) gli israeliani sono malamente divisi tra loro stessi; “il mondo ebraico ha sempre avuto dispute colossali tra personaggi colossali”; 2) il grave pericolo che un gran numero di israeliani possa emigrare in Europa e in Nordamerica e 3) l’Occupazione, che ha avuto un effetto di corruzione sulla società israeliana e ha attirato critiche da tutto il mondo. Si è pensato che giocare la carta dell’Olocausto, mostra Burg, fosse il modo migliore per affrontare questi problemi. Egli cita lo scrittore israeliano Boaz Evron, per spiegare questo punto: la Shoah “è oggi la nostra risorsa principale. E’ la sola cosa con cui cerchiamo di unificare gli ebrei. E’ il solo modo per convincere gli ebrei a non emigrare. E’ la sola cosa con cui cercano di ridurre al silenzio i non ebrei”. Naturalmente, c’è un altro strumento che Israele e i suoi difensori usano frequentemente, ed è l’accusa di antisemitismo.
Facendo fare un passo ulteriore alla mia argomentazione sugli strumenti, Burg fornisce le prove che la ragione principale per la quale gli israeliani e i loro sostenitori evocano l’Olocausto è a causa dell’Occupazione, e delle cose orribili che Israele ha fatto e continua a fare ai palestinesi. La Shoah è l’arma che gli israeliani e i loro sostenitori della Diaspora utilizzano per scansare le critiche e per permettere a Israele di continuare a commettere crimini contro i palestinesi. Scrive Burg: “Tutto viene paragonato alla Shoah, schiacciato dalla Shoah, e perciò tutto è permesso – siano gli steccati, gli assedi, i tribunali, i coprifuoco, la privazione del cibo e dell’acqua, o gli omicidi senza spiegazioni. Tutto è permesso perché siamo passati attraverso la Shoah e voi non ci direte come comportarci”.
La prova migliore che l’ossessione di Israele per l’Olocausto è legata all’Occupazione si trova nella trattazione di Burg dell’evoluzione del pensiero israeliano sull’Olocausto stesso. Egli mostra chiaramente che il pensiero israeliano sulla Shoah è molto cambiato nel corso del tempo. I leader dell’Yishuv “fecero molto poco in risposta all’annientamento degli ebrei d’Europa”, quando era in corso. “Non volevano sprecare risorse emotive che potevano essere altrimenti incanalate nella costruzione dello stato israeliano”. Inoltre, gli israeliani non prestarono molta attenzione all’Olocausto nel primo decennio circa dopo il 1948, e mostrarono sorprendentemente poca compassione per i sopravvissuti che venivano in Israele dopo la guerra. Ma tutto questo cambiò negli anni ’60, a cominciare con il processo Eichmann, per raggiungere il massimo della pressione dopo che Israele conquistò la Cisgiordania e Gaza nel 1967 e dopo che iniziò l’Occupazione. “Per capire la piega sbagliata che abbiamo preso”, scrive, “dobbiamo tornare indietro agli anni ’60, al processo Eichmann, alla Guerra dei Sei Giorni, e a tutto quello che si trova in mezzo”. Egli va anche oltre e osserva che gli anni ’90 – ricordando che la Prima Intifada scoppiò nel Dicembre del 1987 – furono “il decennio della transizione dalla mitologia del vecchio stato ai viaggi ossessivi sulla scena del crimine”. Lo schema sembra chiaro: l’Olocausto è stato l’arma principale che gli israeliani (e i loro sostenitori all’estero) hanno utilizzato per fornire una copertura agli orrori che Israele ha inflitto ai palestinesi nei Territori Occupati.
Tutto questo per dire che il modo migliore per salvare Israele dai suoi guai non è semplicemente andare oltre l’Olocausto, ma cessare l’Occupazione. Allora, il bisogno di parlare in modo incessante dell’Olocausto si ridurrà in modo significativo, e Israele sarà un paese più sano e sicuro. Tristemente, non c’è una fine in vista per l’Occupazione e così è probabile che sentiremo parlare di più, non di meno, dell’Olocausto nei prossimi anni.
[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://tpmcafe.talkingpointsmemo.com/2008/12/09/for_american_readers_the_great/
[2] http://www.amazon.com/exec/obidos/ASIN/0230607527/talpoimem-20
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