Di David O’Connell (2004)[1]
Elie Wiesel è assai ammirato da molti dei cattolici che esercitano il potere nelle cancellerie diocesane e nelle amministrazioni delle scuole e delle università cattoliche d’America. Ha ricevuto lauree ad honorem da svariati istituti cattolici, incluse le università di Georgetown, Notre Dame, Fordham e Marquette. E’ anche adulato da diversi intellettuali cattolici. Gli viene accordato questo trattamento nonostante il ruolo da lui esercitato nello sfruttamento della relazione – una relazione offensiva – esistente tra i rappresentanti delle più importanti organizzazioni ebraiche e quei cattolici che “dialogano” con esse. Nei 40 anni successivi al Vaticano II, questo presunto “dialogo”, iniziato con buoni propositi, si è rivelato in realtà come un monologo in cui la parte ebraica accusa abitualmente i cattolici e il cattolicesimo, mentre i rappresentanti cattolici annuiscono in approvazione. Non è stata mai fatta nessuna seria critica degli ebrei o del sionismo. Il dialogo, ad esempio, è stranamente “silenzioso” sull’implacabile guerra israeliana contro i cristiani di Palestina. Nel 1948, il 18-20% dei palestinesi erano cristiani. Tale cifra è diminuita fino al 2% odierno. La popolazione cristiana di Betlemme, che una volta era il 95% della città, si è ridotta a circa il 15%. Ancora peggio, il muro di separazione, ora in costruzione, passa attraverso molti luoghi sacri a tutti i cristiani.
Il ruolo che Wiesel ha assunto nella relazione offensiva predetta, è di sfruttare i canali privilegiati che egli ha con i media per prendere a bersaglio personalità cattoliche di alto rango. Nel 1979, attaccò il Papa perché non aveva menzionato la parola “ebreo” durante la visita al monumento delle vittime di Auschwitz, anch’esso privo di tale parola. Attaccò poi il Pontefice per non aver menzionato la parola “Israele” durante la sua visita alle Nazioni Unite. Quando il Papa lo invitò a venire a Roma a visitarlo personalmente, Wiesel rifiutò l’offerta. Poi, nel 2000, rimproverò il Pontefice perché le sue scuse agli ebrei per le passate persecuzioni non sarebbero state sufficienti.
I suoi attacchi contro il Cardinale O’Connor di New York, un uomo onesto, sincero e terribilmente ingenuo, iniziarono negli anni ’80. Quando O’Connor visitò Gerusalemme nel 1987, scoppiò in lacrime a causa delle sofferenze patite dagli ebrei nella seconda guerra mondiale. Emozionato, disse che si trattava di un “dono”. Quello che voleva dire era che, in termini cattolici, tali sofferenze erano state una possibile occasione di grazia, come tutte le sofferenze. Wiesel, e altri esponenti dell’ebraismo di New York, lo fecero a pezzi sui media per il suo presunto fanatismo e insensibilità. Il Cardinale e Wiesel allora, diventarono “amici” quando Wiesel lo andò a trovare.[2] In quell’occasione, Wiesel convinse O’Connor a fare un libro-intervista con lui. Venne intitolato Journey of Faith [Il viaggio della fede] (1991), e in esso il Cardinale rimase sulla difensiva dalla prima all’ultima pagina. Nel 1997, Wiesel si rivolse a O’Connor perché lo aiutasse a inaugurare il Museo dell’Olocausto di New York. Mentre erano lì, il Cardinale si prese la responsabilità di “scusarsi” a nome di tutti i cattolici che avevano contribuito alle passate sofferenze degli ebrei.[3] Poi, l’8 Settembre del 1999, molto malato e non lontano dal trapasso, scrisse a Wiesel una lettera personale in cui faceva lo stesso genere di scuse. Wiesel allora pagò 99.000 dollari per trasformare la lettera privata del Cardinale in un annuncio a tutta pagina sull’edizione domenicale del New York Times del 19 Settembre successivo. Dietro le prese di posizione del Cardinale O’Connor c’era l’idea che le sofferenze ebraiche della seconda guerra mondiale ripercorrono nel 20° secolo le sofferenze patite da Cristo, un’idea che un fedele cattolico non può assolutamente accettare.[4]
I rapporti di Wiesel con il Cardinale Jean-Marie Lustiger, di Parigi seguirono negli anni ’90 lo stesso andazzo. Dapprima attaccò Lustiger per essersi convertito da ragazzo al cattolicesimo, poi raggiunse una riconciliazione e infine fece con lui”amicizia”.
Wiesel si compiace anche di dissacrare quella che per molti cattolici è la venerata memoria di Papa Pio XII, facendolo ordinariamente a pezzi per il suo presunto “silenzio” durante la seconda guerra mondiale. Nessun altra voce pubblica ebraica ha mai neppure avvicinato Wiesel nella frequenza e nella velenosità degli insulti da lui espressi alla memoria cattolica di questo Papa. Wiesel sostiene da 35 anni che la Cristianità è morta a Auschwitz. Già nel 1971 dichiarava: “Il cristiano sincero sa che ad Auschwitz non è morto il popolo ebreo ma la cristianità”.[5] Tuttavia, la stampa cattolica, gli intellettuali e la gerarchia trattano Wiesel con gran rispetto! Per Wiesel (come d’altronde per la strapotente lobby mediatica ebraica) le sofferenze degli ebrei durante la seconda guerra mondiale hanno sostituito le sofferenze di Cristo come archetipo dell’era post-cristiana. Esse costituiscono la stella polare dei media, la sacra “offerta combusta” degli uomini secolarizzati. Come il rabbino Jacob Neusner ha fatto notare, “il Giudaismo, e la Redenzione dell’Olocausto” è diventata la religione civile degli Stati Uniti.[6] Quasi non passa giorno senza che i media controllati dagli ebrei producano un articolo, un reportage, uno spettacolo televisivo o un film di qualsiasi genere che hanno come soggetto l’Olocausto, con le discutibili lezioni che siamo obbligati a trarne. La propaganda dei media, sia contro il cattolicesimo che a favore dell’”unicità”, o della superiorità delle sofferenze degli ebrei, è incessante.
Nel corso della sua carriera, Wiesel ha raccontato molte panzane sulle sue presunte esperienze durante la seconda guerra mondiale. Possono essere definite delle “pie menzogne”, poiché hanno uno scopo edificante e vengono raccontate presuntamente a fin di bene, anche se non sono vere. Nelle pagine seguenti, esaminerò attentamente una di queste “pie menzogne”. Riguarda il suo internamento a Buchenwald. Mentre racconterò tale vicenda, diventerà chiaro ai lettori che evito di proposito di utilizzare la parola “Olocausto”. [7] Poiché tale termine è diventato, da parte dei media, una parola in codice utilizzata fin troppo spesso come giustificazione per i crimini di guerra ebraici e per i crimini contro l’umanità che vengono commessi regolarmente nella Palestina occupata, il suo impiego è ormai squalificato. E’ legato anche alle truffe e alle manipolazioni di vari profittatori ebrei dell’Olocausto, dei quali lo stesso Wiesel è probabilmente l’esempio più clamoroso. E’ anche funzionale agli scopi della Israel Lobby, poiché serve da giustificazione alle avventure belliche in paesi stranieri per “prevenire un altro Olocausto”.[8] Parlerei piuttosto di Ordalia ebraica della seconda guerra mondiale, per descrivere la persecuzione nazista degli ebrei innocenti.
La credibilità di Wiesel
Ma chi è Wiesel, e che rapporto ha con l’Ordalia ebraica? Uno storico ebreo, Pierre Vidal-Naquet, il cui padre morì ad Auschwitz, ha scritto di Wiesel: “Ad esempio, abbiamo il rabbino Kahane, l’estremista ebreo, che è meno pericoloso di un uomo come Elie Wiesel, che non dice nulla di importante…Dovete solo leggere dei brani di Notte per capire che certe sue descrizioni non sono esatte e che è essenzialmente un mercante della Shoah…che ha fatto un danno, un danno enorme alla verità storica”.[9] Un’altra personalità ebraica ha fatto il seguente commento sull’ipocrita autobiografia di Wiesel: “Il memoriale di Elie Wiesel è scritto da un uomo le cui pose intellettuali sono passate a lungo inosservate; non riesce a persuaderci di aver intrapreso un percorso di auto-conoscenza, che è il primo requisito di un testamento. Il suo libro, mi dispiace dirlo, dà una brutta fama alla condizione di testimone”.[10] Christopher Hitchens, prendendo posizione contro Wiesel a causa del suo silenzio sui crimini di guerra ebraici in Palestina, si chiede apertamente: “C’è un posatore più spregevole e parolaio di Wiesel? Suppongo di sì. Ma non c’è, sicuramente, un posatore e un parolaio che riceve (e accetta come cosa dovuta) una deferenza così grottesca sulle questioni morali”.[11]
Dal Novembre del 1947 al Gennaio del 1949, Wiesel lavorò per Zion in Kampf, il giornale della banda di terroristi dell’Irgun. Lo sterminio, da parte dell’Irgun, della popolazione araba innocente del villaggio di Deir Yassin ebbe luogo l’8 Aprile del 1948, mentre Wiesel era sul libro paga della banda, e tuttavia egli si mostra sempre inorridito dal “terrorismo” palestinese. Similmente, mentre si dava attivamente da fare negli anni ’80 per ricevere il Premio Nobel, fece un viaggio in Sudafrica. Naturalmente, il New York Times era lì con lui, e registrò la sua condanna di prammatica dell’apartheid. Eppure adesso Wiesel è assolutamente a favore del muro dell’apartheid che viene costruito nella Palestina occupata anche se costerà ulteriori privazioni ai palestinesi. Come se non bastasse, ha attaccato Papa Giovanni Paolo II, che aveva detto che quello di cui il Medio Oriente ha bisogno sono ponti e non muri, scrivendo: “Dal capo di una delle più grandi e importanti religioni del mondo mi sarei aspettato qualcosa di molto diverso, e cioè una dichiarazione di condanna del terrorismo e dell’uccisione di innocenti, senza mescolarla a considerazioni politiche e soprattutto senza paragonare queste cose a un’opera di pura autodifesa. Politicizzare il terrorismo in questo modo è sbagliato”. [12] Ironicamente, lo stesso Wiesel che accusa Pio XII di “silenzio” ora vuole che Giovanni Paolo II rimanga “silenzioso” sui crimini di guerra ebraici in Palestina.
Wiesel e François Mauriac
L’opera con la quale Wiesel è diventato famoso è la sua problematica “autobiografia”, Notte, che è in realtà un romanzo, visto che contiene una buona dose di materiale d’invenzione. Venne pubblicata per la prima volta in Francia nel 1958, ed era basata su una versione in Yiddish molto più lunga, che era stata a suo tempo pubblicata con il titolo E il mondo dimenticò [Und Di Velthat Geshveyn] a Buenos Aires nel Dicembre del 1955. In un ricevimento tenuto all’ambasciata d’Israele nel Maggio del 1955, a cui Wiesel partecipava come reporter di un giornale israeliano, il Nostro avvicinò il ben noto romanziere cattolico (e vincitore nel 1952 del Premio Nobel) François Mauriac (1885-1970), e gli chiese se accettava di essere intervistato.
Mauriac era, per nascita e per educazione, un nazionalista di destra. Nella sua famiglia, all’inizio del ventesimo secolo, il vaso da notte della camera da letto veniva chiamato “le zola”, poiché i Mauriac erano convinti, come molti francesi, che Dreyfus fosse colpevole, nonostante la campagna giornalistica in suo favore. Ma egli cambiò schieramento politico alla metà degli anni ’30, diventando un forte sostenitore dell’ebraismo internazionale. Tale sostegno continuò negli anni bellici e postbellici, quando prese posizione in favore dello stato d’Israele. A quei tempi, nel 1951, fu il primo cattolico ad accusare Pio XII di “silenzio” durante gli anni della guerra. Sorprendentemente, solo due anni prima, quando la sua carriera sembrava finita, giacché non aveva pubblicato opere significative dal 1940, venne premiato con il Nobel della letteratura – e questo per i suoi romanzi! I letterati parigini erano sbalorditi. Come può essere, si chiedevano, specialmente al culmine della voga “esistenzialista”? La domanda che non osavano porsi era il possibile ruolo della lobby ebraica – così potente nella giuria del Nobel – in tale decisione. Il Nobel era forse una ricompensa per il suo sostegno agli ebrei negli anni di guerra e per aver accusato Pio XII, quando era ancora ben vivo? A tale domanda non sono ancora riuscito a dare una risposta.
In ogni caso, Mauriac invitò Wiesel a casa sua. Parlarono degli anni di guerra e dei campi di concentramento. In realtà sembra chiaro, vedendo la cosa in modo retrospettivo, che questo era il solo argomento di cui Wiesel volesse parlare. I due uomini diventarono amici, e Mauriac disse a Wiesel che lo avrebbe aiutato a trovare un editore per il suo libro. Ma il suo libro non solo era scritto in Yiddish ma era anche molto più lungo di quello che sarebbe infine diventato La nuit. Come ebbe luogo la trasformazione? Fu Wiesel a riscriverlo, come ha sempre detto, o venne aiutato da Mauriac? La risposta a questa domanda potrebbe essere probabilmente trovata nella loro voluminosa corrispondenza ma Wiesel possiede entrambe le lettere ricevute da Mauriac e anche quelle che scrisse al suo amico e benefattore. Wiesel tiene nel cassetto la corrispondenza e si rifiuta di pubblicare le lettere, nonostante le suppliche dei suoi amici cattolici liberali alquanto ingenui.[13]
La nuit divenne Night quando apparve a New York nel 1960. Con il sostegno dell’ADL [Anti-Defamation League] la sua lettura divenne poco dopo obbligatoria nei licei e da allora il libro ha venduto milioni di copie. Si trova in contraddizione con il dogma dell’Olocausto ebraico su molti punti-chiave, e anzi, a questo riguardo, può essere considerato colpevole di “negazionismo”. Nondimeno, rimane il solo memoriale sull’Olocausto dotato di qualità letteraria (la qualcosa ci riporta ancora una volta alla questione di chi abbia scritto davvero la versione finale del libro). Nel frattempo, Wiesel si è trasferito a New York, dove ha continuato a lavorare come corrispondente per un giornale israeliano. Poco dopo il suo arrivo in città, venne investito da una macchina vicino a Times Square. Portato per natura all’esagerazione, dichiarò in seguito: “Ho sorvolato un intero isolato. Sono stato investito sulla quarantacinquesima strada e l’ambulanza mi ha raccolto sulla quarantaquattresima. Suona incredibile, ma sono stato completamente rovinato”. [14] Poi, dopo il successo di Night, venne premiato con un incarico di ruolo in un’istituzione pubblica, l’Hunter College. Nonostante si sia vantato nel corso degli anni di aver studiato filosofia e psicologia alla Sorbona e di aver fatto pratica di psicologia clinica per due anni all’Ospedale Saint-Anne, in realtà non è mai risultato iscritto ad alcun corso della Sorbona o di qualunque altro ramo dell’Università di Parigi. Non vi sono neppure le prove che abbia conseguito un diploma di scuola secondaria in Francia. Eppure ora percepisce all’anno un enorme compenso a sei cifre come professore di letteratura alla Boston University, un incarico che teoricamente richiederebbe la laurea.
Negli anni dal 1960 al 1967 i due uomini [Wiesel e Mauriac] intrattennero una corrispondenza regolare. Dopo la conquista della Palestina nel 1967, Mauriac espresse la preoccupazione, nella sua rubrica su Le Figaro, che gli israeliani si comportassero sempre più come i nazisti. Durante la guerra, Mauriac era stato obbligato a fornire ospitalità a casa sua a diversi soldati tedeschi per oltre quattro anni, e sapeva quello che l’occupazione comporta sia per l’occupante che per l’occupato. I due uomini litigarono, e si scambiarono per iscritto dure parole. Wiesel preferirebbe oggi non ricordare l’accaduto, perché probabilmente scrisse cose di cui ora si vergogna. Tuttavia, per anni ha proclamato che avrebbe prima o poi pubblicato le lettere.[15] Ma credo che ci possa essere una ragione molto più importante per l’occultamento della corrispondenza, e cioè perché potrebbe eventualmente rivelare il ruolo attivo di Mauriac nella redazione di La nuit. Dopo tutto, come Naomi Seidman ha fatto notare, La nuit differisce in modo radicale dall’originale in Yiddish quanto a lunghezza, stile, argomenti trattati e significato. Ella giustamente attribuisce questa differenza all’”influenza” di Mauriac. [16] Ma in che modo definiamo tale “influenza”? Mentre l’originale in yiddish sembra essere ricolmo d’odio, pieno del desiderio ebraico di vendetta contro i goym, la versione finale è più obliqua e trattenuta. In una parola, è un’opera di letteratura e, come tale, implica la presenza di una mano esperta, come quella di Mauriac. Viceversa, quando raffrontiamo La nuit a molti romanzi che Wiesel ha scritto in seguito, l’assenza di una mano esperta, come quella di Mauriac, è evidente. In Francia, La nuit è una lettura obbligatoria nelle scuole pubbliche, ma nessuno dei suoi altri romanzi lo sono, o vengono presi sul serio dai critici. In una parola, La nuit è totalmente differente da ogni altra cosa che Wiesel abbia scritto, ed è giusto chiedersi se l’influenza di Mauriac è andata oltre il livello del semplice suggerimento o del consiglio.
Wiesel ad Auschwitz e Buchenwald
Wiesel, insieme ai suoi genitori e a tre sorelle venne deportato da Sighet, Ungheria, ad Auschwitz nel Maggio del 1944. Nato nel Settembre del 1928, aveva all’epoca quindici anni e mezzo. I tedeschi avevano bisogno di lavoratori per le loro fabbriche, poiché l’ideologia nazista proibiva alle donne tedesche di essere ingaggiate in tali lavori. Le donne nella Germania nazista stavano a casa, una politica che appariva sensata ai razzisti che governavano il paese ma che lasciava i tedeschi a corto di manodopera. La mamma di Wiesel e una delle sorelle morirono ad Auschwitz nell’estate del 1944, probabilmente nell’orribile epidemia di tifo che infuriò nel settore femminile del campo. I loro certificati di morte si trovano negli archivi di Auschwitz, ma in un viaggio di studio che mi ha portato lì non mi è stato permesso di consultarli. Le altre due sorelle sopravvissero all’epidemia, e hanno vissuto sino a età inoltrata. Wiesel venne inviato nel settore maschile del campo assieme a suo padre. Alla fine del 1944, quando Wiesel si infortunò al piede in un incidente in fabbrica, venne operato nell’ospedale del campo. Secondo la versione corrente dell’Olocausto, avrebbe dovuto essere liquidato in una camera a gas poiché non solo era un ragazzo ma era anche disabile. Tuttavia non accadde nulla di tal genere. Mentre stava all’ospedale, fece amicizia con il personale e, quando i russi si avvicinarono nel Gennaio del 1945, gli venne offerta l’opportunità, da parte dello staff medico ebraico, di rimanere lì e di non essere evacuato con i tedeschi in ritirata. Eppure, Wiesel preferì partire con i tedeschi che, secondo la versione corrente, inviavano 20.000 persone al giorno nelle camere a gas. La decisione di Wiesel solleva un certo numero di domande molto serie. Anche per il fatto che insistette a trascinare con sé il padre ammalato, cosa che equivaleva in pratica a scrivere il certificato di morte di quell’uomo. Quest’ultimo, fisicamente debole anche prima di essere internato, morì di dissenteria poco dopo il loro arrivo a Buchenwald nel cuore dell’inverno. Rimpatriato in Francia alla fine di Aprile all’età di sedici anni e mezzo, Wiesel si riunì lì con le due sorelle che erano sopravvissute all’epidemia di tifo.
Il 4 Luglio del 2004, la rivista Parade ospitò un articolo di Wiesel. Era corredato da quella che è probabilmente la più famosa immagine propagandistica della seconda guerra mondiale. In essa, appare un cerchietto disegnato intorno al viso di un uomo che si ritiene sia Wiesel. L’immagine venne scattata dal soldato H. Miller del Dipartimento Affari Civili dell’Esercito americano nel campo di Buchenwald il 16 Aprile del 1945, cinque giorni dopo l’arrivo degli americani. Non venne scattata d’impulso l’11 Aprile, ma faceva parte di un gruppo di dodici foto in cui vennero utilizzate tecniche professionali di fotomontaggio.[17] Lo scatto venne poi diffuso ai giornali per essere utilizzato con i consueti scopi propagandistici: dipingere un’immagine dei tedeschi come criminali di guerra nel momento in cui si distoglieva l’attenzione dell’opinione pubblica americana dagli orribili crimini di guerra commessi dagli Alleati. Il fatto che quest’immagine venga ancora sfruttata quasi 60 anni dopo dimostra quanto si sia dimostrata efficace e utile.
Le ultime due pagine di Notte parlano degli avvenimenti legati alla fuga dei tedeschi e all’arrivo degli americani a Buchenwald. Wiesel scrive in Notte che “tre giorni dopo la liberazione di Buchenwald mi ammalai seriamente per una intossicazione alimentare. Venni trasferito all’ospedale, dove passai due settimane tra la vita e la morte”. Perciò, la prima affermazione di Wiesel sulla sua misteriosa malattia è che ebbe luogo “tre giorni dopo la liberazione di Buchenwald”, vale a dire il 14 Aprile. Venne immediatamente ricoverato, e passò “due settimane tra la vita e la morte”. Secondo questo scenario, sarebbe stato all’ospedale dal 14 al 28 Aprile. Poiché la foto venne scattata il 16 Aprile, non può essersi trovato lì.
Wiesel in seguito ha cambiato questa storia di base diverse volte. Ecco la seconda versione dei fatti, che ha inventato molti anni dopo. “Dopo la liberazione mi ammalai e il modo in cui accadde è strano. Ne ho accennato in Notte ma non è la storia completa. L’11 Aprile 1945, quando gli americani arrivano, siamo rimasti a Buchenwald in circa 20.000, dei 60.000 o 80.000 che c’erano prima e non mangiamo da una settimana o giù di lì. Improvvisamente gli americani arrivano e portano il loro cibo ma non sanno quello che stanno facendo; davano cibi grassi. 5.000 persone muoiono immediatamente per intossicazione…il mio corpo si ribella, perdo immediatamente conoscenza e rimango malato per dieci giorni circa – privo di sensi, in coma – intossicazione alimentare o qualcosa del genere”. In questa seconda versione, Wiesel dice che mangiò il cibo “un’ora o due dopo la liberazione”,[18] che contraddice la sua versione originale, riportata in Notte, secondo cui si ammalò tre giorni dopo la liberazione. Inoltre, in questa nuova versione risulta malato, privo di sensi e in coma per dieci giorni, dall’11 al 21 Aprile. In questo caso, una volta di più, non poteva essere lui nella foto scattata il 16 Aprile. Mentre per quanto riguarda l’affermazione di Wiesel dei 5.000 morti da intossicazione alimentare, si tratta di puro isterismo, privo di ogni documentazione storica.
Wiesel, la menzogna e il New York Times
La foto di Buchenwald apparve la prima volta sul New York Times il 6 Maggio del 1945, diverse settimane dopo essere stata scattata. La didascalia recitava: “Cuccette affollate nel campo di concentramento di Buchenwald”. La didascalia non recava la data della foto ma era sottinteso che l’immagine era stata presa quando i prigionieri erano stati liberati l’11 Aprile. I media hanno sempre fatto intendere che fosse questa la data, ma questa è la menzogna basilare su cui sono fondate tutte le altre. Inoltre, il New York Times non identifica nessuno degli uomini dell’immagine, che non riflette tanto la realtà caotica di Buchenwald quell’11 Aprile, quanto la versione hollywoodiana che venne attentamente elaborata dall’Esercito. La foto apparve associata ad un articolo del corrispondente Harold Denny, nel quale egli esprimeva la linea propagandistica ufficiale del governo. Intitolato: “Il mondo non deve dimenticare: quello che è stato fatto nei campi di prigionia tedeschi evidenzia il problema di cosa fare con i popoli che sono moralmente malati”,[19] il suo pezzo rappresentava un diversivo rispetto a quello che gli Alleati stavano facendo ai civili tedeschi innocenti. Come egli scrisse, la Germania era una rovina fumante, in conseguenza dei bombardamenti a tappeto degli Alleati contro i civili, Dresda e Amburgo erano state massacrate, le dighe del Reno erano state distrutte sommergendo un gran numero di innocenti e distruggendo le loro case, innumerevoli civili tedeschi le cui famiglie avevano vissuto per generazioni nella Prussia orientale e in Polonia vennero espulsi dai sovietici che avanzavano, i cinque milioni di tedeschi del Volga che si erano stabiliti in Russia dal diciottesimo secolo erano stati deportati in Siberia – dove la maggior parte di essi morì – durante la guerra, i prodi soldati dell’Armata Rossa violentarono milioni di donne tedesche durante la loro avanzata in Germania e, ecco la cosa più spaventosa, Hiroshima e Nagasaki furono annichilite. Per il New York Times, tuttavia, erano i tedeschi che erano “moralmente malati”. Gli Alleati, invece, avevano salvato la civiltà.
La terza versione della liberazione di Wiesel a Buchenwald è legata a questa foto. Nel 1983, quasi 40 anni dopo che l’immagine era stata scattata, il New York Times la pubblicò con la seguente didascalia: “L’11 Aprile del 1945 le truppe americane liberarono i sopravvissuti del campo di concentramento, incluso Elie, che in seguito si riconobbe nell’uomo contrassegnato dal cerchietto”. E’ importante notare a questo proposito che Wiesel non aveva mai affermato di riconoscersi in questa foto prima del 1983. Perché non lo disse mai a nessuno prima di tale data? E perché il New York Times improvvisamente associò Wiesel a questa foto, specialmente se consideriamo il fatto che l’individuo contrassegnato in essa era un giovane uomo, e non certo un ragazzo di 16 anni? Inoltre quest’uomo non assomiglia in alcun modo a come Wiesel appare da adulto! Ovviamente, il giornale non fece alcun controllo per verificare se l’affermazione di Wiesel era vera, ma il New York Times sa bene che in fatto di Olocausto nessuno oserebbe sfidarlo. Osservando la questione in modo retrospettivo, tuttavia, è chiaro che questa fandonia fu il primo passo nella campagna intrapresa dal New York Times per far ottenere a Wiesel il Premio Nobel, per la letteratura o per la pace.[20] La foto venne pubblicata sulla rivista domenicale ad alta tiratura del New York Times, e comprendeva la seguente affermazione: “Il suo nome è stato menzionato spesso come un possibile destinatario del Premio Nobel, sia per la pace che per la letteratura.[21] Incredibilmente, dopo che il New York Times aveva manipolato un fatto storico dichiarando capziosamente la presenza di Wiesel in quella foto, i suoi giornalisti ebbero qualche anno dopo la faccia tosta di condannare le autorità del Museo di Buchenwald per non aver riportato come un fatto acclarato la loro menzogna! Nel 1989, un reporter del New York Times, visitando Buchenwald, scrisse: “Una grande foto del Museo mostra Wiesel in mezzo agli altri il giorno della liberazione. E’ ignorato dalla didascalia. E la guida che accompagna i visitatori da 14 anni non lo ha mai sentito nominare, pur avendo egli scritto in modo eloquente su questo campo”.[22] Oltre alle precedenti dichiarazioni di Wiesel, secondo cui era malato quando l’immagine venne scattata, un altro problema fondamentale riguardante la presunta immagine di Wiesel in questa foto è che è molto diversa da quella che appare in una foto scattata poco prima della sua deportazione, undici mesi prima. E’ chiaro che era solo un ragazzo, all’epoca e la sua immagine non ha alcun rapporto con quella dell’uomo ritratto nella cuccetta di Buchenwald.[23] Quest’immagine, insieme al fatto che egli ha ripetutamente affermato nel corso degli anni che il 16 Aprile [del 1945] era malato, offre una doppia prova che la sua pretesa di essere presente nella foto di Buchenwald non è nient’altro che una truffa olocaustica. E’ tragico che questa “pia frode” sfrutti le sofferenze dei parenti di Wiesel e di tutti gli altri ebrei innocenti.
Mentre la campagna per il Nobel andava avanti, il New York Times cercava abitualmente di presentare Wiesel in termini roboanti, anche se ciò significava raccontare ulteriori “pie menzogne”. C’era bisogno di valorizzare la sua immagine di sopravvissuto. Così, per esempio, quando fece un viaggio a Berlino, nel Gennaio del 1986, per partecipare a un convegno, il reporter del New York Times dichiarò solennemente: “Elie Wiesel è tornato in Germania questa settimana per la prima volta da quando venne liberato dal campo di concentramento di Buchenwald 41 anni fa”.[24] Peccato che questa roboante affermazione fosse insensata, come il New York Times avrebbe dovuto sapere, poiché Wiesel iniziò la sua carriera come giornalista, a New York, nel Dicembre del 1962, quando pubblicò un articolo pieno d’odio – intitolato giustamente “Appuntamento con l’odio” – per la rivista Commentary, l’organo del Comitato Ebraico Americano. Il soggetto dell’articolo era un recente viaggio che aveva fatto in Germania. In esso, scriveva: “Ogni ebreo, da qualche parte nel suo essere, dovrebbe conservare una zona di odio – un odio sano, virile – per quello che il tedesco personifica e per quello che continua ad esistere nei tedeschi. Comportarsi diversamente equivarrebbe a un tradimento nei confronti dei morti”. La parola “cattolico” può in questo caso facilmente sostituire la parola “tedesco”.
Allo stesso modo, anche dopo l’annuncio del conferimento del Nobel, il 14 Ottobre 1986, il New York Times avrebbe continuato a ricamare sui fatti, sempre cercando di enfatizzare la vita di Wiesel. Ad esempio, il 2 Novembre di quello stesso anno, venne ripubblicata in maniera trionfale una versione pesantemente tagliata della foto di Buchenwald, con la didascalia: “Elie Wiesel, il vincitore del Premio Nobel per la Pace (all’estrema destra in cima alla cuccetta) nel campo di concentramento di Buchenwald nell’Aprile del 1945, quando il campo venne liberato dalle truppe americane”.[25] L’immagine era tagliata in modo tale che l’uomo che si presume fosse Wiesel è a malapena visibile. Il New York Times insinuava anche che la foto fosse stata scattata l’11 Aprile del 1945 senza, naturalmente, dirlo in modo esplicito. Poi, nel Gennaio del 1987, venne scritto erroneamente che Wiesel era stato “liberato da Auschwitz” durante la guerra.[26] Un anno dopo, quando Wiesel fece un viaggio ad Auschwitz, il New York Times scrisse: “Wiesel fu prigioniero ad Auschwitz e fu testimone dell’uccisione avvenuta lì di suo padre e di una delle sue sorelle”.[27] Naturalmente, il padre di Wiesel morì a Buchenwald, e i tragici particolari della morte di sua sorella sono contenuti negli inaccessibili (almeno per me) registri del campo. Ma la parola “Auschwitz” è uno dei tre termini dell’Olocausto diventati “slogan” nelle pagine del New York Times, insieme a “sei milioni” e a “camere a gas”, mentre “Buchenwald” non lo è.
Nel 1987, un anno dopo aver incassato il suo assegno di 270.000 dollari per il Nobel, Wiesel comparve al processo contro Klaus Barbie a Lione, in Francia. In quest’occasione, ancora una volta, la foto di Buchenwald venne pubblicizzata dai media, sebbene non è chiaro fino a quale punto Wiesel fosse coinvolto in questa tipica truffa olocaustica. Il 3 Giugno del 1987, il Chicago Tribune pubblicò una foto d’agenzia che conteneva una versione tagliata degli uomini nelle cuccette di Buchenwald. Ciò che era totalmente nuovo in questa quarta frottola sulla sua liberazione era che Wiesel, accompagnato da due altre persone, una delle quali poteva trattarsi del primo ministro francese Lionel Jospin, venne ripreso mentre stava di fronte a una gigantografia dell’immagine e indicava sé stesso nella foto. La didascalia recitava: “Il Premio Nobel Elie Wiesel indica una sua immagine, scattata da un tedesco nel campo della morte di Auschwitz nel 1945. La foto fa parte del Museo dell’Olocausto di Lione, in Francia”.
Questa didascalia è totalmente menzognera, e il problema di questa truffa è accertare il ruolo avuto in essa da Wiesel. Tuttavia, quando ricordiamo le parole che scrisse all’inizio della sua carriera, e che ha ripetuto molte volte da allora, abbiamo una possibile chiave di lettura. “Alcuni eventi accadono ma non sono veri; altri sono veri anche se non sono mai accaduti”.[28] Raccontare una “pia menzogna” a fin di bene semplicemente non è un problema per Wiesel. Inoltre, poiché il processo Barbie era incentrato sulle deportazioni a Auschwitz, non a Buchenwald, il primo di questi due campi era pubblicizzato ogni giorno durante l’estate del 1987, mentre sul secondo non venne detta neppure una parola. Così Wiesel, mai riluttante a farsi pubblicità, può aver pensato che una “pia menzogna” fosse la cosa adatta per l’occasione.
Nel 1995, Wiesel fornì una quinta versione della sua liberazione in un’intervista pubblicata sul settimanale tedesco Die Zeit. Essa conteneva due nuove informazioni. La prima era che la foto era stata scattata in realtà il giorno dopo la liberazione, vale a dire il 12 Aprile del 1945, non l’11, come i media avevano sempre fatto credere. Questa nuova data non solo contraddice la data del 16 Aprile fornita dall’esercito americano ma rende anche impossibile la sua presenza nella foto, se dobbiamo credere alla sua seconda affermazione che era stato per dieci giorni all’ospedale subito dopo aver mangiato cibo americano l’11 Aprile. La seconda affermazione nuova che emerse da questa intervista era che l’immagine venne scattata nelle baracche dei bambini, o Kinderblock di Buchenwald, dove Wiesel era alloggiato. La dichiarazione in proposito appare due volte nell’articolo, una volta nel testo e un’altra volta nella didascalia dell’immagine (in cui la persona presentata come Wiesel è contrassegnata proprio come lo era stata sul numero del New York Times del 1983): “L’immagine venne scattata il giorno dopo la liberazione nel block dei bambini di Buchenwald da un soldato americano. Essa mostra dei vecchi. Ma questi volti vecchi sono i volti di uomini che, in realtà, avevano 15 o 16 anni di età come me”.[29] Dal 1945, quando il New York Times fece il primo uso propagandistico di quest’immagine, nessuno aveva mai affermato che raffigurasse dei bambini. Eppure, Wiesel si aspetta davvero che gli crediamo, quando sostiene che questi uomini, alcuni dei quali hanno folte barbe o sono parzialmente calvi, erano solo dei bambini. Infine, quando Wiesel afferma che la foto venne scattata “da un soldato americano”, dà l’impressione che si trattò di una cosa fatta d’impulso e non qualcosa di attentamente orchestrato a scopi propagandistici.
Una sesta versione dei fatti sulla liberazione di Buchenwald venne escogitata da Wiesel nel 1989, quando un regista nero e un produttore ebreo cercarono di creare un nuovo mito, e cioè che era stato un battaglione formato esclusivamente da neri, il 761st Tank Battalion, a liberare gli ebrei a Buchenwald. Il loro scopo era quello di accrescere la mutua “comprensione” fra neri e ebrei a Brooklyn grazie alla proiezione di un film chiamato Liberatori. A beneficio del New York Times, che diede ampia copertura a questa vicenda inverosimile, Wiesel rievocò un ricordo nuovo di zecca che non aveva mai menzionato prima: “Ricorderò sempre con amore un grande soldato nero. Piangeva come un bambino – lacrime di tutto il dolore del mondo, e di tutta la rabbia. Chiunque era l’ quel giorno proverà sempre un sentimento di gratitudine per i soldati americani che ci liberarono”.[30] Fece quest’affermazione nonostante il fatto che non vi fossero neri presenti alla liberazione di Buchenwald, l’11 Aprile del 1945, e che il battaglione in questione fosse distante dal campo oltre 50 miglia quel giorno. Dopo un’anteprima di gala del film a Harlem venne detto, in modo graduale, che la tesi del film era un inganno. Così, non venne più distribuito. Tra gli altri, fu Jeffrey Goldberg a denunciare questa fabbricazione mediatica, che il New York Times aveva così fortemente sostenuto. Tuttavia, Wiesel ripeté questa “pia menzogna” nella sua autobiografia: “Non dimenticherò mai i soldati americani e l’orrore che si poteva cogliere sui loro volti. Ricordo in particolare un sergente nero, un gigante muscoloso, che piangeva lacrime di rabbia impotente e di vergogna, vergogna per il genere umano, quando ci vide. Vomitò imprecazioni che sulle sue labbra diventarono parole sante. Cercammo di sollevarlo sulle nostre spalle per dimostrargli la nostra gratitudine, ma non avevamo la forza. Eravamo troppo deboli persino per festeggiarlo”.[31] Nella visione del mondo sussiegosa ed essenzialmente razzista di Wiesel, i neri sono dipinti come fisicamente forti ma impacciati. Possono solo proferire oscenità. Curiosamente, anche se è risaputo che la storia è falsa, Wiesel in seguito la incluse nelle sue conferenze di routine, secondo il bisogno.[32]
Conclusione
Elie Wiesel, così ammirato da tanti leader cattolici americani, è in realtà un truffatore che si è arricchito con le sue panzane. Per quanto sia corteggiato da molti maldestri uomini di chiesa, è in realtà un nemico dichiarato del cattolicesimo tradizionale, e non dovrebbe esercitare alcun ruolo nella vita cattolica di questo paese. E’ chiaro anche che sia Wiesel che il New York Times non hanno difficoltà a raccontare “pie frodi” pur di promuovere l’Olocausto e, di conseguenza, Israele. Ma c’è di più: è spaventoso che Wiesel, nel suo percorso che lo ha portato a diventare un multimilionario (chiede un compenso fisso di 25.000 dollari a conferenza e una macchina con autista per arrivarvi) e un personaggio pubblico, abbia sfruttato così spietatamente la sofferenza e la morte dei suoi genitori e della sorella per mano dei nazisti. Falsificando le sue “memorie” per tornaconto personale, Wiesel ha banalizzato non soltanto le tragedie personali dei membri più stretti della sua famiglia ma anche quelle di tutti coloro, ebrei e non ebrei, che sono morti nei campi. La vecchia vergogna dell’Ordalia ebraica fu, ed è, la morte documentata di troppi ebrei innocenti durante la guerra. La nuova vergogna dell’Ordalia ebraica è lo sfruttamento mediatico incessante di quei morti da parte di personaggi come Wiesel e i redattori del New York Times.
David O’Connell è professore di francese alla Georgia State University di Atlanta
[2] Ari L. Goldman, “For Cardinal, Wiesel Visit Proved a Calm in Storm Over Trip” [Per il Cardinale, la visita di Wiesel è stata un momento di quiete nella tempesta durante il viaggio], New York Times, 15 Febbraio 1987.
[3] Brian Caulfield, “Holocaust Memorial: Cardinal Asks Forgiveness for Christians Who Turned Their Backs On Jews”[Museo dell’Olocausto: Cardinale chiede perdono per i cristiani che voltarono le spalle agli ebrei], Catholic New York, 18 Settembre 1997, pp. 14-15.
[4] Brian Caulfield, “University Award: Cardinal Honored for Promoting Catholic Jewish Relations” [Premio universitario: Cardinale premiato per aver promosso le relazioni tra cattolici e ebrei], Catholic New York, 13 Novembre 1997, p. 12. “Sebbene molti cristiani vennero perseguitati dai nazisti, ha detto il Cardinale, solo gli ebrei furono uccisi a causa soprattutto della loro origine etnica”. “Egli [il Cardinale] ha sottolineato di essere “appassionatamente impegnato” a far conoscere la verità sull’Olocausto”. Naturalmente, tale affermazione è assurda, perché l’ideologia nazista disprezzava allo stesso modo i cattolici polacchi, il cui paese avrebbe dovuto fornire – nei disegni nazisti – lo spazio vitale per i tedeschi. Inoltre, la responsabilità primaria di un arcivescovo è quella di proclamare Cristo, non quella di raccontare la storia dell’Olocausto.
[5] “What is a Jew? Harry Cargas Interviews Elie Wiesel” [Cos’è un ebreo? Harry Cargas intervista Elie Wiesel], U. S. Catholic/Jubilee, Settembre 1971, p. 28.
[6] Jacob Neusner, “American Jews Embrace a Religion of Memory” [L’ebreo americano professa la religione della memoria], St. Petersburg Times, 12 Aprile 1999. Ecco perché l’Anti-Defamation League, l’American Jewish Committee, il New York Times, e altri media sono stati così faziosi e astiosi nei loro attacchi contro il film The Passion, di Mel Gibson. Egli non ha solo riproposto la centralità delle sofferenza di Cristo per la redenzione del genere umano ma, in tal modo, ha anche minato la religione civile del nostro paese. Non è casuale che molti oligarchi dei media lo abbiano ripetutamente accusato di “negazione dell’Olocausto” per aver riaffermato Cristo al di sopra dell’”Olocausto”. Va notato che la lettera maiuscola con la quale si scrive “Olocausto” sottolinea il presupposto razzista che gli altri olocausti, quando ci si riferisce ai milioni di vittime in Ruanda, Armenia, Cambogia, all’Ucraina staliniana (nella quale i commissari ebrei esercitarono un ruolo preponderante) o alla Palestina, non sono importanti.
[7] I limiti di spazio non permettono la descrizione di come Wiesel, con l’aiuto del suo mentore del New York Times, Abe Rosenthal, abbia creato tale parola nel 1968 come copertura della conquista e dell’occupazione, nel 1967, del resto della Palestina. L’oppressione dei cattolici per mano dei nazisti, ben documentata a Norimberga, venne definita da Wiesel “inefficace”. Solo gli ebrei possono essere le “vere” vittime dell’”olocausto” nazista.
[8] Bob Woodward, Plan of Attack, New York, Simon & Schuster, 2004. Woodward riferisce della visita di Wiesel alla Casa Bianca alla fine di Febbraio del 2003, quando Bush stava ancora presuntamente ponderando la decisione di attaccare l’Iraq. Dopo aver sentito Wiesel, che gli diceva che la sicurezza d’Israele era a rischio, Bush prese la sua decisione facilmente. Gli americani devono combattere per proteggere Israele. Era al corrente Bush, all’epoca, che Wiesel è sul libro-paga della CIA, come egli si vanta nella sua autobiografia? Wiesel, naturalmente, in passato è stato anche un sostenitore di primo piano del bombardamento americano della Iugoslavia nel 1999.
[9] Pierre Vidal-Naquet, Zero, Aprile 1987, p. 57.
[10] Vivian Gornick, “The Rhetoric of Witness: All Rivers Run to the Sea: Memoirs by Elie Wiesel” [La retorica del testimone: tutti i fiumi corrono verso il mare: le memorie di Elie Wiesel], The Nation, 25 Dicembre 1995.
[11] Christopher Hitchens, “Wiesel Words” [Le parole di Wiesel], The Nation, 19 Febbraio 2001.
[12] Anon, “Wiesel Slams Pope Comments” [Wiesel fustiga i commenti del Papa”], http://www.news24.com/ , 17 Novembre 2003.
[13] Eva Fleishner, “Mauriac’s Preface to Night: Thirty Years Later” [La prefazione di Mauriac a Notte: trent’anni dopo], America, 19 Novembre 1988.
[14] Clyda Haberman, “An Unofficial but Very Public Bearer of Pain, Peace, and Human Dignity” [Un portatore ufficioso ma molto pubblico di dolore, pace e dignità umana], New York Times, 5 Marzo 1997.
[15] Israel Shenker, “The Concerns of Elie Wiesel: Yesterday and Today [Le preoccupazioni di Wiesel: ieri e oggi], New York Times, 10 Febbraio 1970, p. 48. “I due divennero amici intimi, e Wiesel prevede di pubblicare un volume con il loro dialogo – che ha avuto momenti di forte polemica, soprattutto riguardo a israele”.
[16] Naomi Seidman, “The Rage That Elie Wiesel Edited Out of Night” [Il furore che Wiesel ha espunto da Notte], Jewish Social Studies, Dicembre 1996.
[17] Jonathan Heller, “War and Conflit: Selected Images from the National Archives” [Guerra e conflitto: immagini selezionate dagli Archivi Nazionali], Washington D. C., National Archives and Records Administration, 1990, p. 253.
[18] Cargas, Conversation with Elie Wiesel, p. 88.
[19] Harold Denny, “The World Must Not Forget”, New York Times, 6 Maggio 1945, p. 42.
[20] Dopo che Wiesel ricevette il Nobel, diversi scrittori ebrei lo accusarono di essersi dato vergognosamente da fare per ottenerlo. Vedi, ad esempio: Jacob Weisberg, “Pop Goes Elie Wiesel” [Il tentativo riesce a Wiesel], New Republic, 10 Novembre 1986.
[21] Vedi: Samuel G. Freedman, “Bearing Witness: The Life and Work of Elie Wiesel” [Recare testimonianza: la vita e l’opera di Elie Wiesel], New York Times, 23 Ottobre 1983. La foto appare a p. 34.
[22] Henry Kamm, “No Mention of Jews at Buchenwald”, New York Times, 25 Marzo 1989, p. 8.
[23] Elie Wiesel, “Le Jour où Buchenwald a été libéré”, Paris–Match, 10 Aprile 2003, p. 116.
[24] John Tagliabue, “Elie Wiesel Back in Germany After 41 Years”, New York Times, 23 Gennaio 1986.
[25] Martin Suskind, “A Voice from Bonn: History Cannot be Shrugged Off” [Una voce da Bonn: la storia non può essere ignorata], New York Times, 2 Novembre 1986. L’articolo fa notare che il Comitato del Nobel “scelse proprio Wiesel per il premio” perché si voleva mandare un messaggio al governo di Kohl in Germania, che non aveva dimostrato sufficiente contrizione nel 1985 nelle commemorazioni del quarantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale.
[26] “A Survivor Prize” [Un premio per il sopravvissuto], New York Times, 4 Gennaio 1987.
[27] “Wiesel and Walesa Visit Auschwitz”, New York Times, 18 Gennaio 1988.
[28] “Legends of Our Time” [Leggende del nostro tempo], 1968, VIII.
[29] Die Zeit, 21 Aprile 1995, p. 16.
[30] Henry Kamm, “No Mention of Jews at Buchenwald” [Nessuna menzione degli ebrei a Buchenwald], New York Times, 25 Marzo 1989, p. 8.
[31] “All Rivers Run to Sea” [Tutti i fiumi si riversano sul mare], p. 97.
[32] Anon, “Maya Angelou and Elie Wiesel on Love, Hate and Humanity” [Maya Angelou e Elie Wiesel sull’amore, sull’odio e sull’umanità], Massachussets, primavera 1995, p. 4.
"i cinque milioni di tedeschi del Volga?" Dice l'articolo. Cinque milioni? Questi 5 milioni sono come i 6 milioni. Se tra revisionisti e anti-revisionisti è una gara a chi la spara più grossa siamo ben messi!.