di Benny Ziffer[1]
Messo on-line l’11 marzo 2008
Il giudaismo non è più la religione dominante in Israele. Auschwitz è divenuto il centro di gravità attorno al quale si organizzano pensieri di questo tipo: «Saremo forti e senza pietà affinché ciò non si ripeta». Non molto tempo fa, nel bel mezzo di una riunione con compagni di gioventù, mi sono imbarcato in una discussione con alcuni amici di cui ero ospite (ad un certo punto, sembrava che mi volessero cacciare di casa), a proposito dei viaggi dei giovani in visita ai campi di sterminio in Polonia. Io sostenni che c’era qualcosa di perfettamente contorto in questa volontà di instillare nello spirito dei giovani israeliani il dolce veleno dell’eterna vittimizzazione, e di restringere il loro mondo di valori a qualcosa di così negativo e di così assoluto nella sua negatività come i campi di sterminio nazisti. Agli occhi dei miei ospiti – i cui figli si erano appena recati in Polonia e ne erano orgogliosi come un musulmano che si vanta di aver fatto il pellegrinaggio a La Mecca – l’opinione che espressi tra le quattro mura di casa loro puzzava alquanto di eresia. Ai loro occhi sembrava che eguagliassi, nella mia crudeltà, i peggiori negatori del genocidio. Avevo segretamente pietà di loro e dei loro simili, ai quali non si può opporre al loro mondo spirituale altro centro di gravità che non sia Auschwitz, attorno al quale organizzano i loro pensieri. Come, ad esempio, l’idea secondo cui dobbiamo essere forti affinché Auschwitz non si ripeta. E che è preferibile smettere di essere troppo critici verso noi stessi perché è l’odio di sé che ha condotto (secondo loro) all’indebolimento del popolo ebraico e ha reso possibile Auschwitz. E che bisogna smettere di avere pietà per i palestinesi, il cui obiettivo è il nostro annientamento totale. A dire il vero, ho notato un certo numero di reazioni rabbiose pubblicate sul mio blog, un segno di questo attaccamento fanatico alla religione di Auschwitz che è divenuta, in larga misura, la religione dominante in Israele, molto più del giudaismo. Un giorno sfortunato – a causa dello sciopero generale decretato a quel tempo da Amir Peretz, che paralizzò il Paese e che impedì anche l’entrata e l’uscita dal Paese per via aerea – rimasi bloccato per tre giorni all’aeroporto di Londra, finché la British Airways trovò una soluzione originale: farmi prendere il volo per Varsavia, perché di là – come mi venne bisbigliato all’orecchio nel più grande segreto – partivano come di consueto i voli per Israele, in quanto si trattava di voli presi dai giovani di ritorno dal loro pellegrinaggio ad Auschwitz. In quel momento, senza lasciare in me il minimo dubbio, ho avuto la netta sensazione che la religione di Auschwitz avesse avuto la meglio sulle regole dello sciopero, persino agli occhi di quel baffuto Stalin che era Peretz. Naturalmente, ho accettato di buon grado questa sistemazione e mi sono ritrovato in un aereo della compagnia polacca Lot in volo per Israele, accanto ad un sopravvissuto del genocidio che mi ha raccontato come, nel 1939, aveva visto suo padre bruciare ad Auschwitz (in quell’anno, il nemico non aveva ancora nemmeno sognato Auschwitz), e in mezzo ad un gruppo di un centinaio di giovani eccitati che non smettevano di gridare e di cantare battendo ritmicamente le mani, e di tormentare le hostess polacche con domande bizzarre. Alcune anziane signore, apparentemente delle sopravvissute, guidavano tutto questo baccano, stimolando i giovani ragazzi e le ragazze: «Sì, sì! Che graziosi! Guardateli»! Quando ero al collegio, la religione di Auschwitz non regnava ancora negli spiriti (per fortuna!). Alla fine della scuola, facemmo un viaggio a Parigi, a bordo della Théodore Herzl, che gettò l’ancora prima a Genova e successivamente a Marsiglia. La nostra guida era il professor Preis, che ho avuto in seguito come docente all’Università, e al quale sono riconoscente per avermi fatto conoscere il romanzo francese della fine del XIX secolo, e in particolare il capolavoro di Joris Karl Huysmans A rebours, e che ci aprì gli occhi per la prima volta sulla cultura occidentale. Mi ricordo di come rimanemmo a bocca aperta davanti al quadro dell’incoronazione di Napoleone nella grande galleria del Louvre. Ringrazio Dio del fatto che la prima religione in cui sono stato immerso sia stata la religione dell’Arte e del Bello, e non la religione della Morte e dell’Odio. Penso, quindi, che non abbiamo niente da trovare ad Auschwitz, che Auschwitz non ci appartiene, e che quelli che hanno bisogno di visitare quel luogo, sono i discendenti di coloro che hanno commesso gli orrori che vi sono stati commessi, e non le loro vittime. E che ci sono altre vie per ricordarsi di questo doloroso capitolo del passato senza fare di questa memoria una religione fanatica che brucia tutto ciò che la circonda. Non ho dato il permesso ai miei figli di andare in Polonia nel quadro di queste visite organizzate. Tuttavia, ho visitato con loro parecchi campi in Germania, come Dachau, e un piccolo campo in Baviera, il campo di Flossenbürg, la cui entrata si trova nelle immediate vicinanze delle case del villaggio di Flossenbürg. Ciò ci ha insegnato il grado di indifferenza e di insensibilità di cui è capace il genere umano. Nel campo di Flossenbürg venne incarcerato uno degli eroi della resistenza anti-nazista, il pastore Dietrich Bonhoffer, che fu giustiziato poco tempo prima della fine della guerra. Abbiamo così ricevuto una lezione sulla grandezza d’animo di alcuni tedeschi in quei tempi di orrore. Poi, a Berlino, abbiamo visitato la cattedrale di Santa Edvige, vicina alla Bebelplatz, il luogo in cui nel 1933 i nazisti bruciarono migliaia di libri. Nella cripta della cattedrale è sepolto Bernhard Lichtenberg, un sacerdote cattolico che aveva preso l’abitudine, dopo la «Notte dei Cristalli», il 9 novembre di quell’anno, di recitare tutte le sere una preghiera pubblica per gli ebrei perseguitati. Nel 1941, egli venne denunciato presso le autorità e incarcerato. Alla fine della detenzione, una volta stabilito che la galera non lo aveva fatto rinsavire, egli venne inviato nel campo di concentramento di Dachau, ma morì durante il tragitto. Nel 1966, la Chiesa cattolica lo ha riconosciuto ufficialmente come martire e lo ha beatificato. Ecco, in sostanza, la religione in cui ho cresciuto i miei figli: la religione del coraggio di pensare, non come un gregge.
[1] Traduzione di Paolo Baroni. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://www.lalibre.be/index.php?view=article&art_id=407714
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