Di Salvatore Lener S. J.
Articolo tratto da La Civiltà Cattolica del 20 Luglio 1946
I
L’espressione corrente “crimini di guerra” unifica nominalmente, come già fu detto,[1]
nozioni disparate. Una trattazione unitaria, limitata ai soli principii fondamentali, si è rivelata possibile ed opportuna pei crimini di guerra propriamente detti e pei delitti contro l’umanità.[2] Relativamente a tali categorie di atti, invero, l’indagine, pur svolgendosi spesso in apicibus juris, ha potuto mantenersi sostanzialmente sul terreno giuridico: e, concludendo per l’applicabilità quanto meno analogica del diritto penale comune, superare l’obiezione della inesistenza di una fonte di diritto qualificante reati i fatti in esame.
Ma per le rimanenti categorie di atti, vale a dire pei crimini contro la pace e pel cosiddetto piano comune o complotto nazista per la conquista dei pieni poteri all’interno e della supremazia mondiale con mezzi delittuosi (rispettivamente count two e count one dell’Indictment pel processo di Norimberga), una semplice occhiata agli stessi titoli rivela un terreno di natura profondamente diverso, dove sceverare le parti del diritto da quelle della politica sarà ormai cosa ben ardua. Attenendoci ai dati concreti dell’anzi detto giudizio, destinato certamente a costituire il tipo di ogni consimile procedimento, considereremo distintamente da prima l’oggetto del secondo capo di accusa, serbando per ultimo il count one, riassuntivo di tutta la complessa attività criminale del movimento nazista.
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Leggiamo la breve relazione dichiarativa del titolo “crimini contro la pace”: “Tutti gli imputati, con diverse altre persone, durante un periodo di anni anteriore all’8 Maggio 1945, partecipavano alla progettazione, preparazione, inizio ed esecuzione di guerre di aggressione, che erano pure in violazione di trattati, accordi, assicurazioni internazionali…(Tali guerre): contro la Polonia, il Regno Unito e la Francia, la Danimarca e la Norvegia, il Belgio, l’Olanda e il Lussemburgo, la Jugoslavia e la Grecia, la U. S. S. R. e gli Stati Uniti d’America”. Per la dimostrazione che si trattò deliberatamente di guerre di aggressione, si rinvia al count one; pei particolari dei singoli addebiti (trattati violati ecc.), alla minuziosissima Appendice C dell’Indictment. La specificazione dell’attività propria dei vari imputati (individui, gruppi, organizzazioni) forma oggetto delle Appendici A e B.
Limiteremo l’esame critico di questa categoria di atti a due quesiti fondamentali: 1) la guerra, e più precisamente la guerra d’aggressione o in violazione di trattati internazionali, può essere considerata per sé stessa crimine penalmente perseguibile? 2) contro chi va diretta la pretesa punitiva?
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Sulla questione della guerra ingiusta e su quella della relativa responsabilità sono stati profusi mari d’inchiostro e fiumi di eloquenza. Una delle ragioni degli scarsi risultati pratici di tanti e sì nobili sforzi deve essere probabilmente riposta nella frequentissima confusione dei diversi aspetti – politico, morale e giuridico – sotto cui questi eterni problemi possono venire considerati. Le aspirazioni ideali, in cui il possibile non sempre è distinto dall’utopistico, influenzano sovente l’analisi dei dati concreti. Il diritto ideale è presentato spesso come legge vigente. Ne consegue una sì larga varietà di opinioni nella stessa interpretazione delle norme positive, che gli elementi sicuri appaiono relativamente pochi.
La precisa formulazione dei nostri quesiti limita rigorosamente la sfera dell’attuale indagine al campo del diritto e, più determinatamente ancora, a quello del diritto penale. Ogni guerra che non sia di legittima difesa per sé, è moralmente illecita, contraria cioè al diritto naturale: ma non si tratta di ciò. La massima “non omne quod licet honestum est” vale già a fondare l’ipotesi di una guerra ingiusta per la morale, ma lecita secondo il diritto positivo. D’altra parte non ogni azione proibita da una legge è delitto punibile. Vi sono, pel diritto, illeciti civili e illeciti penali. Quando la sanzione del divieto consiste nella restituzione dello stato preesistente, nel risarcimento dei danni e persino nell’adozione di cautele dirette a impedire il ripetersi dell’azione vietata, non siamo punto in presenza di crimini. Delitto è soltanto l’azione proibita da una legge penale, da una norma cioè che ne connetta la commissione con la irrogazione di una pena.
Per potersi parlare perciò di crimini contro la pace, occorre una norma che tuteli questo supremo interesse dei popoli mediante la comminazione di sanzioni penali contro coloro che vi attentano, Stati o persone singole che siano.
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Il principio dell’assoluta sovranità statale, assurto dopo la pace di Westfalia a presupposto dogmatico caratteristico del moderno diritto internazionale, importa logicamente l’impossibilità di concepire e attuare mezzi idonei a risolvere le più gravi controversie fra gli Stati in maniera diversa dal ricorso alla guerra. Coerentemente, gli sforzi della politica dopo quell’epoca furono diretti a concretare sistemi di sicurezza mediante alleanze e garanzie fra gruppi di potenze, mentre quelli del diritto intesero a contenere l’uso della violenza bellica nei limiti di una disciplina ognor più rigorosa ed umana. A dimostrare l’assoluta insufficienza e la grave pericolosità del sistema fu necessaria la severa lezione della prima guerra mondiale. Pertanto, da una parte si tentò negli stessi trattati di pace di dar vita a una nuova organizzazione delle relazioni fra gli Stati, al fine di limitare appunto quanto possibile l’evento di nuove conflagrazioni (Società delle Nazioni); sorsero, dall’altra, e si moltiplicarono generosi movimenti di dottrina e di opinione pubblica (associazioni, leghe, conferenze, ecc.) diretti a conseguire la totale eliminazione della guerra come mezzo giuridico per la risoluzione delle controversie interstatali. Alcuni trattati parvero inaugurare senz’altro questa nuova strada. Tuttavia, per quanto gli ottimisti ritenessero, e i discorsi celebrativi di ogni nuovo accordo di tal genere presentassero la mèta già raggiunta, è d’uopo riconoscere che ancora alla vigilia del secondo conflitto mondiale l’evoluzione dell’ordinamento internazionale nel senso anzi detto, come fatto positivo, era ben lungi dalla solidità e completezza necessarie a garantire lo scopo agognato dai popoli.
Giova, per provvedere insieme alla chiarezza ed alla brevità della dimostrazione, precisare anticipatamente il termine ideale del processo evolutivo di cui sopra. Lo scarto fra il jus condendum e quello effettivamente conditum risulterà in piena evidenza.
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Una proposizione che incontra l’incondizionato favore dei pacifisti ed ha ormai larga ospitalità anche nelle trattazioni giuridiche è quella che afferma la guerra essere per sé stessa un delitto. La necessità di mettere risolutamente la guerra fuori legge viene caldeggiata specialmente in America (outlawry of the war) come il solo mezzo idoneo ad assicurare la pace. Che cosa si intende esattamente con questa formula?
Anzitutto, essa importa pel diritto il superamento di qualsiasi distinzione tra guerra giusta e guerra ingiusta, tra guerra d’aggressione e guerra di difesa. Anzi, secondo il Moore, il diritto internazionale deve eliminare completamente la stessa parola “guerra”, giacchè “il diritto di difendersi è inerente a ogni soggetto, ma non è guerra. La difesa di sé stesso da parte di un individuo è qualcosa di diverso da un duello; non è neppure omicidio. Così la difesa da parte di una nazione non è guerra”. Orbene, se non è guerra la violenza esercitata da uno Stato per sua legittima difesa, che cosa sarà quella dello Stato che aggredisce? Non guerra, vale a dire unico stato di violenza regolato dal diritto internazionale bellico; ma serie di delitti distinti: omicidi, stragi, lesioni, devastazioni, furti ecc. Contro tali violenze è lecito reagire con qualsiasi mezzo proporzionato ed è esercitatile con tutta severità l’ordinario magistero punitivo. A quel modo, invero, che il diritto di uno Stato non può regolare le rivoluzioni, ma legittima misure anche eccezionali di repressione, così il diritto degli Stati non deve regolare la guerra. Il delitto non è un istituto giuridico, anche se degli istituti giuridici (di prevenzione e di punizione) si occupano di esso.
Innegabilmente questa concezione rappresenta quanto meno sotto il profilo logico, una soluzione radicale del problema. Ai fini della nostra indagine, tuttavia, essa suscita tre gravissimi dubbi: 1) il diritto internazionale positivo, generale o particolare, contiene già formalmente una norma che tratti la guerra come delitto? 2) qualora un trattato particolare enunciasse un principio di questo genere, sarebbe esso sufficiente, senza un’adeguata trasformazione dell’intero ordinamento internazionale, a raggiungere l’effetto voluto? 3) si può giustificare, comunque, vale a dire anche alla stregua di criteri non strettamente positivistici, una punizione dei responsabili dell’ultima guerra in base al criterio su detto?
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Pel primo dubbio la risposta è negativa. Vale anzitutto un decisivo argomento a fortori. Il diritto internazionale generale o consuetudinario, secondo la più solida interpretazione dottrinale e la pratica costante degli ultimi secoli, non considera mai illecito il ricorso alla guerra, sia per la tutela di veri e propri diritti (controversie giuridiche), sia per la soddisfazione di interessi vitali per uno Stato eventualmente in contraddizione col diritto esistente (così dette controversie politiche);[3] ma ciò che pel diritto non è neppure genericamente illecito non può, a maggior ragione, essere considerato penalmente illecito; dunque secondo il diritto internazionale consuetudinario la guerra non è un delitto.
Sussistono bensì per gli Stati impegni convenzionali sempre più ampi e più precisi di non ricorrere alla guerra. Senonché: a) trattasi di limitazioni oggettivamente e soggettivamente parziali, non di proibizione assoluta e generale; b) le sanzioni previste pel caso d’infrazione non hanno propriamente natura penale; c) non esiste fino ad oggi nessun trattato che proscriva la guerra nella maniera postulata dalla concezione della guerra-delitto. Diamo una breve dimostrazione di questi assunti.
Ad a). Il patto della S. D. N. [Società delle nazioni] rappresenta sì un primo e notevole passo nel senso di una nuova organizzazione dei rapporti internazionali diretta a “realizzare…la pace e la sicurezza fra gli Stati”. Pure, mentre fin dal principio alcune grandi potenze rifiutavano di aderirvi e altre in seguito ne recedevano, lo stesso preambolo dichiara che i membri assumevano “l’impegno di non ricorrere in alcuni casi alle armi”. Dunque fuor di questi casi ed anche in quelli previsti, ma dopo certi procedimenti, la guerra rimane pienamente lecita. Invero, accanto all’ideale della pace, i fondatori della S. D. N. ebbero presente anche quello della giustizia, a soddisfare il quale il patto restava insufficiente, mentre gli Stati mostravano ancora tanta ripugnanza a vincolare la propria libertà d’azione per la tutela di interessi ritenuti essenziali. Di qui l’errore politico di certe potenze le quali, mentre riconoscevano espressamente nel patto l’insufficienza dell’ordinamento creato a realizzare una vera giustizia internazionale, si ostinarono poi con ogni sforzo a “cristallizzare un così deficiente e lacunoso sistema”.[4]
Un congegno molto più efficace ai fini della pace è quello delineato dal Protocollo di Ginevra del 1923, che presenta una definizione altrettanto originale quanto pratica della guerra di aggressione. La maggioranza dei membri della S. D. N., però, non volle aderirvi. Il Trattato di Locarno dà vigore, invece, fra gli Stati contraenti a un divieto del ricorso alla guerra notevolmente più severo e generale, consentendolo solo nell’ipotesi di legittima difesa. Per la sua portata soggettivamente limitata, l’atto, tuttavia, non valeva a impedire che l’incendio, scoppiando fuori della zona renana da esso protetta, si propagasse fatalmente anche ad essa, attraverso il sistema di alleanze ancora vigenti.
Veniamo al Patto Kellog (27 Agosto 1928). Mentre in Europa gli sforzi per assicurare la pace tendevano a proibire sempre più efficacemente la guerra d’aggressione, in America assumevano la tendenza più radicale di eliminare completamente la guerra dal diritto internazionale. Il patto Kellog sembrò consacrare appunto il trionfo della concezione americana. In realtà, “le esigenze politiche e le pretese degli Stati europei finirono per renderlo ondeggiante fra i due opposti sistemi, così da dar luogo a un sistema ibrido ed incerto”.[5] Sostanzialmente esso non contiene (art. 1) che “una solenne condanna del ricorso alla guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali” e la rinuncia alla stessa come “strumento di politica nazionale” (non assoluta, dunque). D’ora in avanti, la risoluzione di ogni conflitto, di qualsiasi natura e origine, non dovrà essere ricercata che con mezzi pacifici (art. 2). Questo è tutto.
La portata dell’accordo, esaltato dagli uni e denigrato dagli altri, è controversa. Sotto il profilo del diritto positivo, non sembra possibile prescindere, almeno come mezzo d’interpretazione, dalle dichiarazioni degli Stati firmatari, con cui si introducono importantissime limitazioni. Tipica, ad esempio, è la dichiarazione inglese, ove si osserva che “vi sono certe regioni del mondo il cui benessere e la cui integrità sono di speciale importanza e vitale interesse per la pace e la sicurezza”…inglese; “deve essere chiaramente inteso che…(l’Inghilterra) accetta il nuovo trattato con la esplicita intesa che esso non pregiudica la sua libertà d’azione a questo riguardo”.[6] E’ chiaro qui che la possibilità di guerra per controversie politiche (giacchè non sussisteva nessun diritto internazionale dell’Inghilterra a sorvegliare regioni non soggette alla sua sovranità) cacciata dalla porta (trattato) veniva riammessa dalla finestra (dichiarazione). A loro volta, gli Stati Uniti dichiaravano che ogni azione promossa in base alla dottrina di Monroe non doveva ritenersi vietata dal patto. In una nota al Governo tedesco, poi, essi specificavano che il trattato non limitava punto il diritto di legittima difesa “inerente a ogni Stato sovrano e implicito in ogni trattato…Ogni nazione è libera in qualsiasi tempo e malgrado le disposizioni dei trattati di difendersi…ed è essa solo competente a decidere se le circostanze richiedano il ricorso alla guerra”. (Nota del 25 Giugno 1928). Anche la Francia si riservò libertà d’azione pel caso di violazione della neutralità di certi Stati, che essa aveva garantita. Breve: con eccezioni e limitazioni così gravi e indeterminate, che cosa restava delle assolute proclamazioni del patto?
Consideriamo soltanto quella relativa alla legittima difesa. Dalle esplicite dichiarazioni sopra riportate risulta che gli Stati non intesero salvaguardare la sola reazione a una aggressione attuale e ingiusta ai rispettivi territori e popolazioni, ma anche la libera tutela (intendi: persino preventiva) di interessi sovranamente considerati vitali (“certe regioni”…dottrina di Monroe, neutralità degli Stati-cuscinetto ecc.). Lungi dunque dal proscrivere la guerra come un delitto, i firmatari del patto Kellog conservano la convinzione che in certi casi, che essi solo si riservano di giudicare, si potesse ricorrere alle armi anche per un interesse non giuridico, anzi antigiuridico (controversie politiche). La concezione americana della outlawry of the war potrà forse essere intravista nelle parole del patto; in concreto, essa risulta nettamente abbandonata.
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Ad b). Le sanzioni previste dal Patto della S. D. N. e dagli altri successivi (il patto Kellog non ne menziona punto) non hanno certamente natura penale. Anzitutto esse si applicano agli Stati. Ora, per quanto molti profani e qualche giurista si dilettino a parlare di Stato criminale e a formulare variabili elenchi di pene per gli Stati, sembra chiaro che trattasi di mere analogie esterne, d’ingenua e superficiale identificazione di realtà disparate, senza vero costrutto positivo. Nessuna delle sanzioni previste dal diritto positivo o progettate dal jus condendum ripugna a una interpretazione, diciamo così, strettamente civilistica (non penale).
La sanzione massima, infatti, è la guerra. Ma la guerra in reazione a un giusto attacco è necessità di legittima difesa, è obbligo di alleanza o garanzia internazionale, non è pena. Se l’aggressore vince, non si ha neppure danno per lui. Se perde, la misura del suo danno è tassata non da un codice penale internazionale, ma dagli interessi politici del vincitore. Ricordiamo che la restituzione dello status quo, il risarcimento dei danni, le misure cautelative (smilitarizzazioni, distruzione di industrie pesanti, ecc.) e persino gli ingrandimenti territoriali a favore degli Stati vincenti non sono pena. Questi ultimi, invero, sogliono essere giustificati in base ad altri principii (nazionalità, sicurezza); mentre persino per la perdita delle colonie l’istituto del mandato cercò di ricoprire, almeno in apparenza, interessi e cupidigie ritenuti non apertamente confessabili e perciò non giusti.
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Ad c). Poco vi è da aggiungere a quanto detto sub a). Nel primo articolo ricordammo già il meschino riconoscimento fatto dalla S. D. N. a proposito del mal progettato processo del Kaiser, che “non esiste nessuna legge penale vigente fra gli Stati”.[7] Nel 1925 il delegato spagnolo alla IV Assemblea propose che il Consiglio convocasse una nuova conferenza pel disarmo e che in essa si proclamasse “che la guerra d’aggressione costituisce un delitto internazionale”. La mozione fu bensì approvata, ma con una…lieve rettifica: “la guerra d’aggressione deve costituire…”. Deve, pel futuro, s’intende: jus condendum!
In realtà ancor oggi quell’imperativo non è stato tradotto in nessun testo positivo; anzi il sistema dei trattati vigenti, come si è visto, vi ripugna, come pur vi ripugna nettamente la pratica internazionale. Persino nelle guerre manifestamente ingiuste (si pensi all’aggressione al Belgio del 1914) gli stessi Stati che vi reagivano non hanno mai cessato d’invocare il diritto internazionale bellico come disciplina della violenza armata, riconoscendo implicitamente con ciò che anche la dichiarazione di guerra ingiusta valeva a far sorgere lo status belli, una situazione cioè per sé stessa regolata dal diritto (dunque non costituente delitto). Ma c’è di più. Gli stessi atti, in base ai quali si svolge l’attuale processo di Norimberga (Agreement di Londra, Charter del Tribunale, Indictment), mostrano, con singolare contraddizione, il perdurare della medesima mentalità. Formulandosi invero, come distinto capo d’accusa, un titolo di crimini di guerra propriamente detti (violazione del diritto bellico), ci si poneva nella impossibilità logica di colpire la guerra in sé stessa come delitto. La categoria dei crimini contro la pace è dunque non sono infondata, ma contraddittoria!
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Il secondo dubbio (sopra, p. 3) permette di costruire un ulteriore importante argomento a fortori. Supponiamo pure che a norma di qualche trattato (per es. il Patto Kellog) la guerra (simpliciter o d’aggressione) sia senz’altro qualificabile come delitto: una dichiarazione del genere può ritenersi per sé sufficiente a fondare concrete pretese punitive, senza l’organizzazione di un vero e proprio ordinamento penale internazionale?
Con la solita antica saggezza scrive il Taparelli: “Le autorità supreme di Società minori (Stati) hanno diritto a far guerra, finchè la maggiore Società (internazionale) non giunge a tal perfezione di mente, di volontà, e di forza da conoscere, volere ed ottenere una esatta giustizia fra gli associati. Dunque finchè l’etnarchia non sarà rettamente e sodamente costituita, le nazioni potranno, ed anche lecitamente, guerreggiare per farsi ragione.”[8] Ora tutto il diritto internazionale, consuetudinario e convenzionale, proclama che questo stadio non è ancora raggiunto. Le limitazioni apposte nel patto della S. D. N. e le dichiarazioni aggiunte allo stesso patto Kellog che cosa altro significano se non, ed espressamente, che gli Stati sono convinti non esistere ancora un sistema idoneo a realizzare la giustizia internazionale? Ma se l’ordine internazionale non è in grado di provvedere alla giustizia fra gli Stati neppure in sede preventiva o, diciamo così, civilistica, una giurisdizione penale repressiva non è ancora in condizione di proscrivere la guerra dal novero degli istituti giuridici, questa non è delitto.
Quando si deve amaramente riconoscere che anche oggi, dopo i tremendi disastri della seconda guerra mondiale e nonostante l’organizzazione della società internazionale su nuove basi (O. N. U.), le grandi potenze che vi spadroneggiano non riescono ad assicurare ai popoli l’agognatissima pace, ma continuano a patteggiare provvisori compromessi a prezzo di flagranti ingiustizia contro i vinti e le potenze minori, viene fatto di domandarsi con quale coerenza, e soprattutto con quale diritto, siansi assise a Norimberga per condannare la Germania per un atto, che esse medesime non mancheranno di fare al momento opportuno, quando lo riterranno inevitabile pei loro interessi!
Concludendo: poiché nell’ordinamento internazionale la guerra non è, né può essere ancora, allo stato presente, delitto punibile, la questione della direzione soggettiva della pretesa punitiva, secondo lo stesso diritto, non è neppur formulabile. Dove non c’è delitto, non vi sono delinquenti.
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Per rispondere al terzo dubbio (sopra, p. 3) abbandoniamo ormai il terreno del diritto internazionale positivo. Si sostiene da alcuni che nello ordine umano ogni guerra, che non sia imposta dall’ingiusta aggressione altrui, è sempre illecita, e penalmente illecita. Responsabili, in detto ordine, sarebbero non gli Stati (come è ovvio), ma i governanti.[9] Non crediamo di poter accettare questa dottrina. Anzitutto, sotto il profilo soggettivo, parrebbe necessario distinguere tra regimi assoluti e regimi democratici. Se in uno Stato veramente democratico la guerra (illecita) è voluta dal popolo, come si possono punire i soli governanti, che pure agirono ubbidendo alla volontà collettiva? Ma il consenso del popolo (per es. a una guerra di rivincita dopo gravi ingiustizie subite) può aversi, teoricamente, anche in regime assoluto; anzi la storia insegna che i popoli sogliono ricorrere alle dittature precisamente per necessità del genere. Sappiamo anche noi che una nazione civile, per sé, quasi mai consentirà alla guerra, ove non sussistano ragioni d’onore e di giustizia altrimenti non soddisfacibili. Ma qui sta appunto il nocciolo della questione, onde dal momento soggettivo di essa (determinazione delle responsabilità personali) si ritorna a quello oggettivo (giustizia e inevitabilità del conflitto armato). Anche gli autori da cui dissentiamo riconoscono essere “evidente cje il giudizio sulle condizioni di fato, per cui una guerra debba ritenersi o meno imposta, è giudizio assai complesso; e che, pertanto, se si prescinde da qualche caso macroscopico, non è possibile formulare un’affermazione di responsabilità pei governanti. Anche nella ipotesi…di mancanza di una dichiarazione formale di guerra, non è sempre facile esprimere un giudizio di condanna, soprattutto quando sia evidente che la sorpresa costituisca l’unica arma di difesa contro un’aggressione già preparata”. Ma – essi aggiungono – “questo è un problema di fatto…in linea di principio, la responsabilità va affermata”.[10]
A noi sembra che tale distinzione costituisca una vera scappatoia intesa a dissimulare l’insormontabile difficoltà del problema. Trattasi, invero, dello stesso errore per cui tanti principii, ottimi in teoria, si rivelano all’atto pratico inefficiente utopia. Occorre, infatti, risolutamente stabilire la seguente verità: ogniqualvolta, fermi restando i principii, sussiste o è possibile un conflitto nella valutazione dei fatti, e manca qualsiasi mezzo oggettivo per decidere il conflitto medesimo, nell’ordinamento in cui tale situazione può verificarsi, la controversia non già soltanto “difficilmente risolubile” (difficoltà di fatto) ma non è “affatto risolubile (impossibilità di diritto). In una situazione siffatta, pertanto, ciascuna delle parti è libera di agire secondo il proprio convincimento. E la contraddizione non consente di affermare che ciò che è giuridicamente libero sia anche, dopo, giuridicamente punibile.
Quando si tarta di distinguere tra guerra giusta e guerra ingiusta, di solito, i principii non sono mai in discussione. La controversia si accanisce, invece, sui fatti (singoli, o a catena) e sulla interpretazione di essi. Onde con vera saggezza è stato detto che, a risolvere il problema della pace, nulla sarebbe più idoneo di una giurisdizione internazionale capace di giudicare obiettivamente i fatti.
Anche il principio della outlawry of the war, impeccabile nel suo rigore logico, suscita in concreto gravi perplessità. Anzitutto la distinzione tra guerra d’aggressione e guerra di difesa viene usata nel sistema europeo (tutt’ora ancorato alla politica delle alleanze e garanzie) non tanto fra le parti in conflitto, quanto tra ciascuna di esse e i rispettivi alleati, sicché nulla impedisce una definizione meramente formale e anche arbitraria, purché idonea a funzionare automaticamente all’occorrenza (si pensi al protocollo di Ginevra del 1923). In secondo luogo, e l’osservazione vale specialmente per l’opinione che qui si combatte, è innegabilmente vero che la guerra moderna coi suoi apocalittici mezzi di sterminio pone in gravissimo discrimine non tanto la pacifica coesistenza dei popoli, quanto la stessa esistenza di alcuni di essi, onde sorge spontaneo il ricorso a concetti propri del diritto penale. Ma, ripetiamolo ancora, finché la società umana non perverrà a eliminare un male peggiore amcora della guerra, l’ingiustizia, e fin tanto che la guerra potrà presentarsi non solo ai governanti ma agli stessi popoli come l’unico disperato mezzo di soddisfare essenziali esigenze di giustizia, neppure il diritto umano potrà proscriverla come un delitto. Non fosse altro, il dolo sarà o escluso o presso che impossibile a provarsi. Scrive efficacemente il Del Vecchio:
“E’ un grave e funesto errore, che si commette dagli irenisti, quando si attribuisce alla pace in sé stessa un valore che essa, disgiunta dall’ideale della giustizia, non ha e non può avere; quando si esige l’abolizione della guerra sic et simpliciter, e si vitupera quasta come il supremo dei mali, per ciò che essa produce morte e dolore, quasi che non fosse al mondo un male assai più grave e vituperevole, un male che la guerra medesima può concorrere per sua parte ad eliminare, cioè l’ingiustizia in tutte le sue forme, l’oppressione degli individui e delle nazioni.”[11] Concludiamo. Neppure in base al diritto umano, almeno secondo il nostro modo di concepirlo,[12] la guerra ingiusta può essere considerata delitto, poiché difetta un criterio universalmente valido per distinguerla da quella giusta e manca, comunque, ogni legittimo mezzo per formulare in tal proposito un giudizio obbiettivo e tempestivo. Vuol dire che tra valutazione morale e valutazione storico-giuridica sussiste un grave sfasamento, che è urgente eliminare nell’interesse dell’umanità, ma che gli Stati non sono ancora in grado di superare con provvidenze efficaci. Tra le quali, non può essere certo compresa la retroattiva incriminazione dei voluti responsabili dell’ultima guerra.
II
Il Count one dell’Indictment presenta l’intera attività del nazismo, all’interno e all’estero, come lo sviluppo di un unico disegno criminale, per sé stesso perseguibile. Riassumiamo brevemente la fierissima relazione d’accusa: “Tutti gli imputati, con diverse altre persone, in un periodo di anni anteriore all’8 Maggio 1945 partecipavano come leaders, organizzatori, istigatori o complici alla formulazione o esecuzione di un piano comune o complotto per commettere, o importante comunque la commissione di, crimini contro la pace, crimini di guerra e delitti contro l’umanità, e, in conformità dei principii fissati nel Charter, sono individualmente responsabili per i loro propri atti e per quelli commessi da ogni altra persona in esecuzione di siffatto piano comune o complotto.” Invero, dopo l’assunzione di Hitler a capo del partito nazista (1921), questo divenne, insieme alle organizzazioni sussidiarie, il centro di coesione fra gli imputati e lo strumento idoneo all’attuazione delle loro mire e progetti, vale a dire: 1) abrogazione del Trattato di Versailles e di tutte le relative restrizioni imposte alla Germania; 2) riacquisto dei territori perduti e di ogni altra regione abitata da popolazioni di lingua tedesca; 3) conquista dello spazio vitale (Lebensraum) necessario al benessere del popolo tedesco. Questi obbiettivi, che si andarono via via determinando, furono perseguiti da prima, secondo l’opportunità dei tempi, con mezzi frodolenti, inganni, intimidazioni, quinte colonne, corruzioni e propaganda; quindi, quando divennero così enormi che solo col ricorso alle armi sarebbe stato possibile raggiungerli, i cospiratori progettarono senz’altro guerre di aggressione, da condursi rapidissimamente e perciò senza nessun rispetto delle leggi internazionali e umane.
A tale effetto, fu necessario conquistare il controllo più completo, sicuro e incondizionato del paese. Di qui le dottrine razziste, militariste, supernazionaliste; di qui le varie organizzazioni militari e poliziesche del partito, le persecuzioni politiche, razziali e dei lavoratori; di qui la concentrazione dei più illimitati poteri nel Führer, arbitro assoluto dei destini del popolo tedesco (Führerprinzip). Finanza, industrie ed esercito si mobilitano in vista delle guerre imminenti. S’inizia quindi la marcia nazista fuori dei confini del Reich. Sotto la violenza, Austria e Cecoslovacchia soccombono. L’attacco contro la Polonia, freddamente preparato, precipita il mondo nella guerra voluta dalla Germania.
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L’ampiezza della trattazione riservata agli altri capi d’accusa ci consente, e la tirannia dello spazio c’impone, di limitarci per questo capo ad accennare soltanto le censure più decisive. Trattasi in realtà di una costruzione macchinosa, la cui apparente implacabilità logico-giuridica non riesce a dissimulare neppure per i profani[13] i molteplici vizi di struttura e l’indole sostanzialmente politica dell’imputazione. A fondare la condanna, anche severissima, di molti degli accusati sarebbe stato più che sufficiente il diritto comune, la cui applicabilità fu già dimostrata in relazione ai delitti contro l’umanità. A quel modo che, per essi, la responsabilità degli esecutori e, in genere, dei subordinati ufficiali, viene regolata coi normali criteri di giustizia, negandosi efficacia di diritto alle norme eccezionali e alle istruzioni poste in essere dal nazismo, così per gli autori principali (ministri, comandanti militari, leaders politici e organizzatori) bastava escludere ogni immunità inerente a cariche e funzioni (anche supreme) e fissare il normale gioco delle corresponsabilità, indipendentemente da qualsiasi inceppo formale eventualmente opponibile.
A battere la pericolosa strada segnata dal count one ha indotto forse (oltre l’evidente proposito di un processo spettacolare, da servir di mònito al popolo tedesco e a ogni altro possibile imitatore) l’intento di facilitare il compito dell’accusa quanto alla rigorosa prova delle singole responsabilità. Ma appunto per ciò si sono dovuti presentare come delitti fatti e obbiettivi politici che, per quanto riprovevoli, delitti non sono; ovvero, se delitti, non da altri che dal solo popolo tedesco erano giudicabili.
Che la guerra, per quanto illecita, non sia delitto si è già dimostrato ampiamente. Tanto meno, allora, può essere considerato delitto il semplice proposito di far guerra. Nella specie, poi, il popolo tedesco ha marciato compatto; ha sostenuto per anni terribili bombardamenti indiscriminati, conservando una tenace disciplina; ha resistito fino all’ultimo senza defezioni: dunque gli obiettivi del così detto common plan or conspiracy sono stati condivisi e convalidati da tutto il popolo tedesco. Anzi, il sentimento dell’onta e delle ingiustizie subite a Versailles dalla Germania è stata la molla possente e fatale, che ha permesso a Hitler e ai suoi segugi d’impadronirsi del potere e di consolidarvisi tirannicamente. Pertanto: o si condanna l’intero popolo tedesco, o è assurdo parlare di complotto, di associazione a delinquere, di cospirazione contro la pace, come delitto di alcuni tedeschi soltanto.
La concezione del processo di Norimberga ha oscillato tra questa alternativa. Da ultimo il rappresentante americano dell’accusa, in un’arringa, ha dichiarato: “Se la nazione tedesca avesse volontariamente accettato il programma dei nazisti, allora non ci sarebbe stato bisogno dei campi di concentramento né della Gestapo”. Agli italiani, invece, è stato fatto tutt’altro discorso. “Voi (han detto specialmente uomini politici inglesi in discorsi ufficiali e sulla stampa) non siete responsabili per aver voluto la guerra, imposta dal fascismo: ma siete responsabili di aver voluto il fascismo che ha voluto la guerra”. Ora i tedeschi, la guerra han dimostrato di volerla, come si è visto, anche se in parte male sopportarono la tirannide nazista. Ma questa è tutt’altra faccenda. Se il delitto-base per gli accusatori, è la stessa tirannide nazista, a giudicare i suoi tiranni era competente solo il popolo tedesco; mentre a Norimberga, in un giudizio impostato essenzialmente su tale delitto, non siede un solo giudice, un solo accusatore germanico! Non si ruba il mestiere ai profeti giudicando che la sentenza, lungi dal fare stato pel popolo tedesco, sarà ricevuto come un sopruso intollerabile, onde coloro che, se colpiti pei soli delitti contro l’umanità, sarebbero stati messi alla gogna di fronte alla storia diverranno invece nuovi eroi nazionali.
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Sul terreno politico-giuridico, poi, che è il terreno proprio del count one, le osservazioni potrebbero moltiplicarsi. Tutte le violazioni di trattati addebitate alla Germania fino all’aggressione della Polonia, gli Stati che vogliono ora condannarne gli autori le hanno sopportate, ratificate, legittimate. Si pensi all’accordo anglo-germanico per la limitazione degli armamenti navali; si ricordi il convegno di Monaco…L’argomento usato dagli inglesi contro gli italiani può facilmente ritorcersi contro i vincitori: voi, si potrebbe dire, non siete responsabili della guerra, voluta da Hitler; ma siete responsabili di aver permesso a Hitler fin dal 1921 di bandire propositi di rivincita, e poi di riarmarsi, di prepararsi alle aggressioni, di annettersi l’Austria, parte della Cecoslovacchia ecc. Di più: ad aggredire la Polonia non è stata solo la Germania, ma anche la Russia, la quale aveva già compiuto una simile prodezza contro la Finlandia. Eppure a Norimberga, la Russia non siede fra gli accusati, ma fra i giudici! Ancora: mentre Francia e Inghilterra sono entrate in guerra per la libertà della Polonia, le Nazioni Unite han detto di combattere pei principii della Carta Atlantica. A guerra vinta, la Polonia non è libera e la Carta è sepolta in un abisso di nuove ingiustizie internazionali. Politica? Benissimo, ovverosia malissimo! Ma la politica non è diritto. Nei rapporti internazionali, anzi, essa è spesso notoriamente la negazione del diritto e, quel che è peggio, della giustizia.
L’avere riunito, pertanto, in un unico procedimento penale, contro i medesimi imputati, capi d’accusa certamente fondati sul diritto (delitti contro l’umanità) con altri affatto privi di fondamento giuridico (delitti contro la pace) e fuso il tutto in un sistema generale schiettamente politico (count one) è un errore basilare che vizia l’intero processo di Norimberga. La condanna, infatti (come la conclusione del sillogismo, che “sequitur sempre peiorem partem”) non potrà avere un valore superiore a quello del più debole dei capi d’accusa: sarà, dunque, necessariamente una condanna politica. Il che, mentre è proprio ciò che si voleva evitare di fronte all’opinione pubblica mondiale, rende assolutamente insormontabile la seconda obiezione solita a muoversi contro questo genere di giudizi, obiezione di cui dobbiamo ora finalmente occuparci
III
Per infliggere a qualcuno una pena, a cagione di azione od omissione a lui imputabile, non basta che quel comportamento sia incriminato in una norma di diritto penale, ma è necessario altresì e soprattutto un giudice.
A proposito del mancato processo contro il Kaiser, scrive l’Orlando: “Questa terza ragione che rendeva impossibile il giudizio (mancanza del giudice) è quella che il sentimento non solo dei tendini ma dell’universale avverte subito come assolutamente ripugnante. Ad ogni uomo dotato di un mediocre sentimento di giustizia apparirebbe intollerabile che un reato possa essere giudicato dall’accusatore e la condanna pronunciata dalla stessa parte offesa”. Che vale, poi, promettere all’accusato le più ampie garanzie di difesa, “quando si dimentica che la prima e più essenziale garanzia è quella dell’imparzialità del giudice?”[14]
Sembra davvero singolare, a chi sappia mantenersi al di sopra delle passioni suscitate dalla guerra, che giuristi d’indiscusso valore non abbiano avvertito, in relazione al nuovo processo contro i capi tedeschi, quella “ripugnanza” che risponde innegabilmente al più elementare senso di giustizia, almeno fra noi latini. Ma la moderna scienza del diritto processuale, cui la giovane scuola americana ha dato pure notevole contributo, ha posto in luce le ragioni profondamente razionali di quel sentimento, che appare in piena armonia coi principii del diritto naturale. In base a tali criteri, è lecito affermare con tutta certezza l’illegittimità del Tribunale di Norimberga, così come è stato costituito in base all’accordo di Londra. Non trattasi semplicemente di legittima suspicione contro il Collegio giudicante, a cagione della sua composizione,[15] il che sarebbe già sufficiente a porre in dubbio la sua capacità a compiere opera di giustizia anzi che di vendetta politica. Il vizio è più grave e radicale in quanto, secondo i principii generali del diritto, vale a dire secondo la nozione stessa di giurisdizione, quel Tribunale non può essere riconosciuto come giudice.
E’ merito grandissimo di un nostro maestro, il Chiovenda, l’aver precisato con termini scultorei e definitivi l’essenza caratteristica della funzione giurisdizionale. Qualunque organo pubblico, che agisca rettamente secondo il diritto, pone in essere un’attuazione della legge, formulando un giudizio (di fatto e di diritto) relativamente alla situazione (e agli eventuali interessati) cui deve provvedere. Ma la funzione propria del giudice, o giurisdizione, “consiste nell’attuazione della legge mediante la sostituzione della attività di organi pubblici all’attività altrui, sia nell’affermare l’esistenza di una volontà di legge, sia nel mandarla ulteriormente ad effetto”.[16] In altri termini, l’organo giurisdizionale, a differenza di ogni altro, non è mai e non può essere, per la stessa natura della funzione esercitata, giudice in causa propria (nemo iudex in sua causa). Pertanto, colui che giudica in causa propria sarà parte, sarà organo amministrativo, politico, sovrano: non giudice. Ripetiamo: colui che giudica in causa propria non è soltanto un giudice sospetto e perciò ricusabile (come avviene se egli ha interessi connessi con una delle parti, o rapporti di sangue o intima amicizia ecc.); egli, semplicemente, non è giudice. Onde, se di fatto funziona ugualmente da giudice, l’illegittimità del processo e la nullità della sentenza, secondo i principii generali del diritto, sono assoluti e insanabili. Ecco perché il Taparelli avverte che nei rapporti internazionali, secondo lo stesso diritto naturale, o si ricorre a un Tribunale legittimamente costituito da potenze veramente neutrali, o si è costretti a riconoscere, che “il cannone è l’ultima ragione dei Re”.[17]
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Relativamente alle accuse formulate nel count one e nel count two, che gli attuali giudici di Norimberga siano parti in causa, sembra affatto evidente. Invero, di fronte alla netta eccezione degli imputati che la guerra mossa dalla Germania alle potenze giudicanti fu giusta, di una giustizia quanto meno sostanziale, pei torti subiti a Versailles e successivamente, come negare che quelle potenze, chiamate direttamente in causa come accusate (reus in excipiendo fit actor), sian poste nella necessità di giudicare in causa propria? Non asseriamo punto, con ciò, che l’eccezione sia fondata in fatto e in diritto. Soltanto, l’incertezza dei fatti in controversia e il già illustrato imperfetto stadio del diritto internazionale dimostrano che quella eccezione è quanto meno ammissibile; vale a dire, che essa deve essere giudicata. Ora la stessa persona non può cumulare in giudizio le parti del giudice e dell’accusato.
Ma anche in relazione ai delitti contro l’umanità e ai crimini di guerra troviamo avanzata ed ammissibile una eccezione della stessa natura ed efficacia. Il mondo è stato bensì inorridito dai molteplici crimini perpetrati dalle armate naziste; ma lo è stato anche da quelli commessi o comunque addebitati all’altra parte. Già, di delitti contro l’umanità in epoca moderna si è cominciato a parlare precisamente in seguito ai massacri, alle persecuzioni politiche e religiose, alle riduzioni in schiavitù di lavoro verificatesi in uno degli Stati, che ora fa da giudice in Norimberga.[18] Ancora durante la guerra, maltrattamenti di prigionieri si sono avuti dappertutto. In Russia e in Algeria specialmente, la fame ha fatto stragi; e non solo la fame. In certi domini inglesi, l’onore dei prigionieri è stato vilipeso oltre ogni limite umano. E le fosse di Katin? Qui l’accusa era precisa e documentata. E gli stessi bombardamenti aerei anglo-americani non hanno superato evidentemente ogni limite di rappresaglie? Si pensi alle innumeri città italiane semidistrutte in pretesa rappresaglia dei duecento in efficientissimi apparecchi, che avrebbero dovuto bombardare Londra. Si ricordino i mitragliamenti a bassa quota di civili e persino di fanciulli intenti a giochi innocenti (chi può dimenticare la “giostra” di Grosseto?) e gli aviatori ubriachi e l’ignominia delittuosa di certe truppe di colore (marocchini), e le ruberie e le violenze dei singoli… Ma il colmo atroce dell’inumanità resta fissato nei secoli dalle bombe atomiche lanciate su città popolarissime e civili, quali Nagasaki e Hiroshima (secondo certa stampa, già dopo l’offerta di resa incondizionata e non solo per ragioni militari). Altro che “terra bruciata”, altro che “distruzioni indiscriminate” (capi di accusa contro i tedeschi), altro che mezzi di offesa sproporzionati, non limitabili e perciò vietati dal diritto internazionale bellico e da quello naturale!
Si parlerà di rappresaglie? Di necessità logistiche e militari? Noi non sappiamo se e come la Storia potrà accogliere questi argomenti, né come i posteri li giudicheranno. Sappiamo solo che a Norimberga gli imputati hanno assunto a difesa gli stessi principii e avanzate in tal senso analoghe eccezioni (diritto di rappresaglia, diritto di necessità oggettiva o determinata da analoga condotta dei nemici). Sappiamo che queste eccezioni pongono direttamente in stato di accusa le stesse potenze giudicanti tal che, secondo i principii generali del diritto, i giudici non sono più giudici ma parti in causa. In queste condizioni, essi non possono giudicare.
Se taluno o tutti gli accusati rappresentano una minaccia per la pace futura, è lecito ai vincitori adottare contro di essi misure di sicurezza. Ma se si vogliono punire come delinquenti, le parti lese (tutte e prima di tutte la Polonia) facciano magari da accusatori, non da giudici. Per il giudizio, ci si rivolga a un Tribunale di neutri, per esempio all’Alta Corte di giustizia internazionale. Secondo giustizia, però, quelle quattro potenze non possono giudicare, non possono condannare.
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Ciò che vi ha di più tragico nella situazione attuale dell’umanità, uscita di recente da un abisso e già sull’orlo di un baratro peggiore, è forse il contrasto fra la maturità e la diffusione di alte concezioni morali nei singoli e nei popoli e l’impotenza della politica a soddisfare le esigenze che ne derivano. Nel dolore, i popoli e le stirpi hanno imparato che l’identità della natura umana postula necessariamente un’unità morale ed effettiva, cui gli egoismi, le ambizioni e le diffidenze reciproche fra gli Stati pongono ostacoli, che devono essere urgentemente superati. Ora questo superamento non è possibile che nella giustizia e nella carità.
Ma contro la giustizia e la carità tutti hanno peccato. Tutti hanno qualche responsabilità pei disastri dell’ultima guerra. Riconosciamolo sinceramente, umilmente, senza ipocrisie di processi unilaterali. Chiunque ha perpetrato volontariamente i delitti più gravi sia esemplarmente punito. Ma non si eriga a giudice implacabile chi ha peccato a sua volta contro la giustizia e contro l’umanità.
“Il giudizio morale del mondo è interessato a questi processi”: ha detto l’accusatore americano, sig. Jackson. Verissimo. Ma è un giudizio che non investe soltanto gli accusati. Come il supremo giudizio divino, esso controlla anche giudici e accusatori: “Propter quod – ammonisce l’Apostolo delle genti (Rom. 2, 1) – inexcusabilis es, o homo omnis, qui iudicas. In quo enim iudicas alterum, teipsum condemnas”.
[1] Dal mancato giudizio del Kaiser al processo di Norimberga, in Civiltà Cattolica, 1946, I, 332.
[2] Loc. cit., p. 341 e successivamente Civ. Catt., 1946, II, p. 186 e 404.
[3] Per una ampia, solida, lucidissima dimostrazione di questa maggiore, si confronti il trattato di Balladore Pallieri, La guerra, Padova, Cedam, 1936, p. 35 ss.
[4] Balladore Pallieri, op. cit., p. 90.
[5] Balladore Pallieri, op. cit., p. 99.
[6] Nota del 19 Maggio 1928 del ministro degli Esteri britannico all’ambasciatore americano a Londra.
[7] Civ. Catt., 1946, I, quad. 2306.
[8] Taparelli, Trattato di diritto naturale, II, n. 1377.
[9] P. Nuvolone, La punizione dei crimini di guerra, p. 83 ss.
[10] Nuvolose, op. cit., p. 85.
[11] G. Del Vecchio, Il fenomeno della guerra e l’idea della pace, Torino, 1911.
[12] Vedi l’articolo precedente in Civ. Catt., 1946, II, p. 404 e ss., specialmente 410 e 411.
[13] Vedi l’inchiesta di cui riferisce il Risorgimento liberale del 4 Luglio 1946.
[14] Orlando, Il processo del Kaiser, p. 106 della raccolta citata.
[15] E’ noto che il Tribunale militare internazionale di Norimberga si compone dei rappresentanti degli Stati Uniti, dell’Inghilterra, della Francia e della Russia. E’ detto bensì che tali nazioni agiscono per conto dell’O. N. U.: ma che cosa è questa, ancora, se non l’organizzazione delle sole potenze in lotta con l’Asse?
[16] Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, IV edizione, p. 301.
[17] Op. cit., n. 1337.
[18] Mandelstam, La protection international des droits de l’homme, in Recueil des cours de l’Acad. De dr. Int., 1931, IV, p. 146 ss.
Interessante iltuo blog ma dovresti ridurre un po’ il numero di commenti!