Di Mark Weber
Il 6 Agosto del 1945 il mondo entrò drammaticamente nell’era atomica: senza [alcun] avvertimento né precedenti, un aereo americano lanciò una bomba nucleare sulla città giapponese di Hiroshima. L’esplosione distrusse completamente più di sei chilometri quadrati del centro cittadino. Circa 90.000 persone vennero uccise immediatamente; altre 40.000 rimasero ferite, molte delle quali morirono in una prolungata agonia a causa delle radiazioni. Tre giorni più tardi, una seconda esplosione atomica sulla città di Nagasaki uccise circa 37.000 persone e ne ferì altre 43.000. Complessivamente le due bombe uccisero circa 200.000 civili giapponesi.
Tra i due bombardamenti, la Russia Sovietica si unì agli Stati Uniti in guerra contro il Giappone. Sotto le forti pressioni americane, Stalin ruppe il suo trattato del 1941 di non aggressione con Tokyo. Lo stesso giorno che Nagasaki veniva distrutta, le truppe sovietiche iniziarono a riversarsi in Manciuria, travolgendo le forze giapponesi ivi dislocate. Sebbene la partecipazione sovietica influì poco o nulla nell’esito finale della guerra [contro il Giappone], Mosca beneficiò enormemente dall’essersi unita alle ostilità.
In una trasmissione diramata da Tokyo il giorno successivo, il 10 Agosto, il governo giapponese annunciò la propria disponibilità ad accettare la dichiarazione congiunta anglo-americana di Potsdam sulla “resa incondizionata” [dei nemici degli Alleati], “con l’intesa che la detta dichiarazione non comprometta le prerogative sovrane di Sua Maestà [l’Imperatore]”.
Il giorno dopo venne la replica americana, che includeva le parole seguenti: “Dal momento della resa l’autorità dell’Imperatore e del governo giapponese a guidare lo Stato sarà soggetta al Comando Supremo dei Poteri Alleati”. Infine, il 14 Agosto, i giapponesi accettarono formalmente le disposizioni della dichiarazione di Potsdam, e venne annunciato un “cessate il fuoco”. Il 2 Settembre, i rappresentanti giapponesi firmarono la resa a bordo della corazzata statunitense Missouri nella baia di Tokyo.
Una nazione sconfitta
A parte le implicazioni morali, furono militarmente necessari i bombardamenti atomici? Secondo ogni [possibile] parametro razionale, non lo furono. Il Giappone era già stato sconfitto militarmente dal Giugno del 1945. Non era rimasto quasi nulla della – una volta potente – Marina Imperiale, e l’aviazione giapponese era stata totalmente annientata. E’ solo contro un’opposizione ormai simbolica che gli aerei americani percorsero a piacere il paese, e i bombardieri devastarono le città, riducendole in macerie. Quello che venne lasciato in piedi di fabbriche e officine si dibatteva precariamente per produrre armi e altri beni da materie prime insufficienti (i rifornimenti di petrolio non erano più disponibili dal mese di Aprile). A Luglio circa un quarto di tutte le abitazioni giapponesi erano state distrutte, e il sistema di trasporti era vicino al tracollo. Il cibo era diventato così raro che la maggior parte dei giapponesi sopravviveva con un’alimentazione da fame.
La notte tra il 9 e il 10 Marzo del 1945, un’ondata di 300 bombardieri americani colpì Tokyo, uccidendo 100.000 persone. Lanciando circa 1.700 tonnellate di bombe, gli aerei devastarono buona parte della capitale, bruciando completamente oltre 25 chilometri quadrati e distruggendo 250.000 edifici. Un milione di abitanti rimasero senza casa.
Il 23 Maggio, undici settimane più tardi, arrivò il più grande raid aereo della guerra sul Pacifico, con 520 enormi bombardieri B-29 “Superfortress” che sganciarono 4.500 tonnellate di bombe incendiarie nel cuore della già malconcia capitale giapponese. Generando potenti spostamenti d’aria, le bombe cancellarono completamente il centro commerciale di Tokyo e gli scali ferroviari, e distrussero il quartiere dei divertimenti di Ginza. Due giorni più tardi, il 25 Maggio, un secondo assalto di 502 aerei “Superfortress” piombò su Tokyo, sganciando circa 4.000 tonnellate di bombe. Complessivamente questi due raid di B-29 distrussero oltre 90 chilometri quadrati della capitale giapponese.
Anche prima dell’attacco di Hiroshima, il generale dell’Aviazione americana Curtis LeMay si vantò che i bombardieri americani “li avevano riportati [i giapponesi] all’età della pietra.” Henry H. (“Hap”) Arnold, generale in capo dell’Aviazione, dichiarò nel 1949 nelle sue memorie: “Ci è sempre stato chiaro, bomba atomica o non bomba atomica, che i giapponesi erano già sull’orlo del collasso.” Questa valutazione venne confermata dall’ex Primo Ministro giapponese Fuminaro Konoye, che disse: “Fondamentalmente, la cosa che ci spinse alla resa fu il bombardamento prolungato dei B-29.”
Il Giappone cerca la pace
Alcuni mesi prima della fine della guerra, i capi giapponesi riconobbero che la sconfitta era inevitabile. Nell’Aprile del 1945 un nuovo governo guidato da Kantaro Suzuki entrò in funzione con lo scopo di porre termine alla guerra. Quando la Germania capitolò all’inizio di maggio, i giapponesi capirono che gli inglesi e gli americani avrebbero diretto da quel momento tutta la furia della loro imponente forza militare esclusivamente contro di loro.
Gli americani sapevano – avendo decifrato diverso tempo prima i codici militari del Giappone – dai messaggi intercettati che i capi del paese stavano cercando di porre fine alla guerra nel modo meno sfavorevole possibile. I dettagli di questi sforzi vennero appresi dalle intercettazioni dei messaggi segreti tra il ministro degli esteri giapponese e i rappresentanti diplomatici all’estero.
Nel suo studio del 1965, Atomic Diplomacy: Hiroshima and Potsdam (pp. 107-108), lo storico Gar Alperovitz scrive:
“Sebbene fossero stati fatti – da parte del Giappone – dei tentativi per la pace già nel Settembre del 1944 (e Chiang Kai-shek fosse stato avvicinato per un’eventuale resa nel Dicembre del 1944) il vero sforzo per porre fine alla guerra iniziò nella primavera del 1945. Questo sforzo metteva in rilievo il ruolo dell’Unione Sovietica…Alla metà di Aprile [1945] Il Joint Intelligence Committee [Comitato congiunto dell’Intelligence americano] riferì che i capi giapponesi stavano cercando un modo per modificare i termini della resa [che sarebbe stata offerta] alla fine della guerra. Il Dipartimento di Stato si convinse che l’Imperatore stava cercando attivamente un modo di fermare il conflitto.”
Un memorandum segreto
Fu solo dopo la guerra che l’opinione pubblica americana apprese degli sforzi del Giappone per porre termine al conflitto. Il reporter del Chicago Tribune Walter Trohan, ad esempio, fu obbligato dalla censura di guerra a nascondere per sette mesi una delle storie più importanti della guerra.
In un articolo apparso finalmente il 19 Agosto del 1945, sulle prime pagine del Chicago Tribune e del Washington Times–Herald, Trohan rivelò che il 20 Gennaio del 1945, due giorni prima del suo commiato dall’incontro di Yalta con Stalin e Churchill, il Presidente Roosevelt ricevette un memorandum di 40 pagine dal generale Douglas MacArthur che descriveva cinque distinte proposte di resa da parte di funzionari giapponesi di alto rango (il testo completo dell’articolo di Trohan può essere letto nel numero dell’inverno 1985-86 del Journal of Historical Review, p. 508-512).
Questo memorandum mostrava che i giapponesi avevano offerto una proposta di resa praticamente identica a quella infine accettata dagli americani nella cerimonia formale di resa del 2 Settembre: vale a dire, resa incondizionata tranne la persona dell’Imperatore. In particolare, i termini di questa proposta di pace comprendevano:
Resa totale di tutte le forze giapponesi, in patria, nei possedimenti delle isole, e nei paesi occupati.
Occupazione del Giappone e dei suoi possedimenti da parte delle truppe alleate sotto la direzione americana.
Il blocco dell’industria bellica giapponese.
Il rilascio di tutti i prigionieri di guerra e gli internati.
La consegna dei criminali di guerra [designati dagli Alleati].
E’ autentico questo memorandum? Venne presuntamente passato a Trohan dall’ammiraglio William D. Leahy, capo di stato maggiore (Vedi M. Rothbard in, Harry Elmer Barnes: Learned Crusader [Il crociato erudito], 1968). Lo storico Harry Elmer Barnes ha detto in proposito (in Hiroshima: Assault on a Beaten Foe [Hiroshima: assalto contro un nemico battuto], National Review, 10 Maggio 1958):
“L’autenticità dell’articolo di Trohan non fu mai messa in dubbio dalla Casa Bianca o dal Dipartimento di Stato, e per ragioni assai valide. Dopo che il generale MacArthur ritornò dalla Corea nel 1951, il suo vicino nelle Waldorf Towers, l’ex presidente Herbert Hoover, porse l’articolo di Trohan al generale e quest’ultimo confermò la sua esattezza in ogni dettaglio e senza precisazioni.”
Offerte di pace
Nell’Aprile e nel Maggio del 1945 il Giappone fece tre tentativi, attraverso i paesi neutrali della Svezia e del Portogallo, per porre termine alla guerra in modo pacifico. Il 7 Aprile il Ministro degli Esteri Mamoru Shigemitsu si incontrò con l’ambasciatore svedese Widon Bagge a Tokyo, chiedendogli di “accertare quali condizioni di pace gli Stati Uniti e l’Inghilterra avevano in mente.” Ma egli sottolineò che la resa incondizionata era inaccettabile e che “l’Imperatore non doveva essere toccato.” Bagge comunicò il messaggio agli Stati uniti, ma il Segretario di Stato Stettinius disse all’ambasciatore americano in Svezia di “non mostrare nessun interesse o di prendere iniziative per dare seguito alla questione.” Segnali di pace analoghi da parte del Giappone attraverso il Portogallo, il 7 Maggio, e di nuovo attraverso la Svezia, il 10, rimasero parimenti infruttuosi.
Dalla metà di Giugno, sei membri del Supremo Consiglio di Guerra del Giappone avevano segretamente incaricato il Ministro degli Esteri Shigenori Togo di avvicinare i capi della Russia Sovietica “con l’intenzione di terminare la guerra possibilmente a Settembre”. Il 22 Giugno l’Imperatore convocò una riunione del Supremo Consiglio di Guerra, che comprendeva il Primo Ministro, il Ministro degli Esteri e i principali capi dell’esercito. “Abbiamo ascoltato abbastanza questa vostra determinazione di combattere fino all’ultimo soldato”, disse l’Imperatore. “Desideriamo che voi, guide del Giappone, cerchiate di studiare i modi e i mezzi per concludere la guerra. In tal modo, cercate di non essere vincolati dalle decisioni che avete preso in passato.”
Dall’inizio di Luglio gli Stati Uniti avevano intercettato messaggi da Togo all’ambasciatore giapponese a Mosca, Naotake Sato, che mostravano che lo stesso Imperatore aveva preso parte allo sforzo di pace, e aveva ordinato di chiedere all’Unione Sovietica un aiuto per porre termine alla guerra. Gli americani sapevano anche che l’ostacolo principale contro la fine della guerra era l’insistenza americana per una “resa incondizionata”, una richiesta che precludeva ogni negoziato. I giapponesi erano disposti ad accettare quasi tutto, tranne rovesciare il loro Imperatore semi-divino. Erede di una dinastia antica 2.600 anni, Hirohito era considerato dal suo popolo come un “dio vivente”, che personificava la nazione (fino alla trasmissione radio del 15 Agosto del suo annuncio di resa, i giapponesi non avevano mai sentito la sua voce). In particolare i giapponesi temevano che gli americani avrebbero umiliato l’Imperatore, e che lo avrebbero addirittura giustiziato come criminale di guerra.
Il 12 Luglio Hirohito convocò Fumimaro Konoye, che aveva fatto il Primo Ministro nel 1940-41. Spiegando che “sarà necessario ultimare la guerra senza ritardo”, l’Imperatore disse che desiderava che Konoye ottenesse la pace con gli americani e gli inglesi per mezzo dei sovietici. Come il principe Konoye ricordò in seguito, l’Imperatore lo istruì a “ottenere la pace a qualunque prezzo, nonostante la durezza delle condizioni.”
Il giorno successivo, il 13 Luglio, il Ministro degli Esteri Shigenori Togo telegrafò all’ambasciatore Naotake Sato a Mosca: “Vedi [il Ministro degli Esteri sovietico] Molotov prima della sua partenza per Potsdam…Comunica il forte desiderio di Sua Maestà di ottenere la fine della guerra…Il solo ostacolo alla pace è la resa incondizionata…”
Il 17 Luglio, un altro messaggio giapponese intercettato rivelava che sebbene i capi del Giappone ritenessero che la formula della resa incondizionata implicava un disonore inaccettabile, erano convinti che “la richiesta dei tempi” rendesse la mediazione sovietica assolutamente essenziale. Ulteriori messaggi diplomatici indicavano che la sola condizione richiesta dai giapponesi era il mantenimento della “nostra forma di governo”. Il solo “punto difficile”, rivelava un messaggio del 25 Luglio, “è la formalità della resa incondizionata.”
Riassumendo i messaggi tra Togo e Sato, l’intelligence della marina statunitense disse che i capi giapponesi, “sebbene ancora recalcitranti alla condizione della resa incondizionata”, riconoscevano che la guerra era perduta, ed erano arrivati al punto di non avere obiezioni al ripristino della pace sulla base della carta Atlantica del 1941. Questi messaggi, disse il vice-segretario della marina Lewis Strass, “in realtà esigevano soltanto che dovesse essere preservata l’integrità della Famiglia Reale giapponese.”
Il segretario della marina James Forrestal definì i messaggi intercettati come “vera prova del desiderio dei giapponesi di uscire dalla guerra.” Con l’intercettamento di questi messaggi, osserva lo storico Alperovitz (p. 177), “non ci poteva essere più alcun vero dubbio sulle intenzioni giapponesi; le manovre erano palesi ed esplicite e, soprattutto, [erano costituite da] atti ufficiali. Koichi Kido, il Guardasigilli del Giappone e stretto consigliere dell’Imperatore, affermò in seguito: “La nostra decisione di cercare una via d’uscita da questa guerra, venne presa all’inizio di Giugno prima che venissero sganciate le bombe atomiche e che la Russia entrasse in guerra. Era già la nostra decisione.”
A dispetto di ciò, il 26 Luglio i capi degli Stati Uniti e dell’Inghilterra rilasciarono la dichiarazione di Potsdam, che comprendeva questo sinistro ultimatum: “Noi invitiamo il governo del Giappone a proclamare ora la resa incondizionata di tutte le forze armate giapponesi e di fornire opportuna e adeguata assicurazione di buona fede in tale operato. L’alternativa per il Giappone è l’immediata e totale distruzione.”
Commentando questo proclama – draconiano nel suo aut-aut – lo storico inglese J. F. C. Fuller scrisse: “Non una parola venne detta sull’Imperatore, perché sarebbe stata inaccettabile alle masse americane nutrite di propaganda.” (A Military History of the Western World [1987], p. 675.)
I capi americani capivano la posizione disperata del Giappone: i giapponesi desideravano porre termine alla guerra a qualunque condizione, purché l’Imperatore non venisse preso di mira. Se il comando americano non avesse insistito sulla resa incondizionata – vale a dire, se fosse stata messa in chiaro la volontà di permettere all’Imperatore di rimanere al potere – i giapponesi molto probabilmente si sarebbero immediatamente arresi, salvando così molte migliaia di vite.
La triste ironia è che, come è emerso in realtà, i capi americani decisero comunque di mantenere l’Imperatore come simbolo di autorità e di continuità. Essi capirono, correttamente, che Hirohito era utile come uomo di paglia per la loro stessa autorità d’occupazione nel Giappone del dopoguerra.
Giustificazioni
Il Presidente Truman difese tenacemente il suo impiego della bomba atomica, affermando che “salvò milioni di vite” portando la guerra a una rapida conclusione. Giustificando la sua decisione, egli arrivò a dichiarare: “Il mondo noterà che la prima bomba atomica venne lanciata su Hiroshima, una base militare. Fu così perché volevamo evitare in questo primo attacco, per quanto possibile, l’uccisione di civili.”
Questa fu un’affermazione assurda. In realtà, quasi tutte le vittime erano civili, e lo United States Strategic Bombing Survey [l’Indagine degli Stati Uniti sui bombardamenti strategici], pubblicato nel 1946, affermò nel suo rapporto ufficiale: “Hiroshima e Nagasaki vennero scelte come obbiettivi a causa della loro concentrazione di attività e di popolazione.”
Se la bomba atomica venne lanciata per impressionare i capi giapponesi con l’enorme potere distruttivo della nuova arma, questo [scopo] avrebbe potuto essere raggiunto impiegandola contro una base militare isolata. Non era necessario distruggere una grande città. E qualunque fosse la giustificazione per l’esplosione di Hiroshima, è molto più difficile difendere il secondo bombardamento di Nagasaki.
Nonostante ciò, la maggior parte degli americani hanno accettato, e continuano ad accettare, le giustificazioni ufficiali dei bombardamenti. Abituati ai ritratti rozzamente propagandistici dei “giap” come bestie praticamente subumane, la maggior parte degli americani nel 1945 accoglievano con grande entusiasmo ogni nuova arma che avrebbe annientato il maggior numero possibile dei detestati asiatici, e avrebbe aiutato a vendicare l’attacco giapponese di Pearl Harbor. L’opinione dei giovani americani che stavano combattendo i giapponesi in aspri combattimenti era: “Grazie a Dio per la bomba atomica.” Pressoché all’unanimità, erano grati per un’arma il cui impiego sembrava porre fine alla guerra permettendo loro di ritornare a casa.
Dopo la distruzione di Amburgo con i bombardamenti incendiari, dopo l’olocausto di Dresda della metà di Febbraio del 1945, e dopo i bombardamenti incendiari di Tokyo e di altre città giapponesi, i capi americani – come il generale Leslie Groves commentò in seguito – “erano generalmente assuefatti allo sterminio dei civili.” Per il Presidente Harry Truman, l’uccisione di decine di migliaia di civili giapponesi semplicemente non era un fattore di giudizio nella sua decisione di utilizzare la bomba atomica.
Voci critiche
In mezzo all’entusiasmo generale, c’era qualcuno che nutriva qualche grave dubbio. “Siamo gli eredi del mantello di Gengis Kan”, scrisse l’editorialista del New York Times Hanson Baldwin, “e di tutti coloro che nel corso della storia hanno giustificato l’uso della totale spietatezza in guerra.” Norman Thomas definì Nagasaki, “la più grande singola atrocità di una guerra molto crudele.” Joseph P. Kennedy, padre del Presidente, rimase altrettanto inorridito.
Una voce preminente del protestantesimo americano, il Christian Century, condannò fortemente i bombardamenti. Un editoriale intitolato “L’atrocità atomica americana”, nel numero del 29 Agosto 1945, disse ai lettori:
“La bomba atomica è stata utilizzata in un momento in cui la marina giapponese era colata a picco, la sua aviazione praticamente distrutta, il suo territorio circondato, i suoi rifornimenti tagliati, e le nostre forze pronte per l’attacco finale…I nostri capi sembrano non aver soppesato le considerazioni morali inerenti. Non appena la bomba fu pronta venne inviata d’urgenza al fronte e lanciata su due città inermi… Si può dire onestamente che la bomba atomica ha colpito la stessa cristianità. Le chiese d’America – e con esse la loro fede – si devono dissociare da questo atto sconsiderato e inumano del governo americano.”
Una voce preminente del cattolicesimo americano, il Commonweal, espresse un’opinione simile. Hiroshima e Nagasaki, venne scritto nell’editoriale della rivista, “rappresentano la colpa e la vergogna dell’America”.
Il Papa Pio XII condannò parimenti i bombardamenti, esprimendo un parere conforme alla posizione tradizionale cattolica romana, secondo cui “ogni atto di guerra diretto alla distruzione indiscriminata di intere città o di vaste aree con i loro abitanti è un crimine contro Dio e l’umanità”. Il giornale del Vaticano, l’Osservatore Romano, così si espresse nel suo numero del 7 Agosto 1945: “Questa guerra riserva una conclusione catastrofica. Incredibilmente quest’arma distruttiva rimane come una tentazione per la posterità che, lo sappiamo per amara esperienza, impara così poco dalla storia.”
Voci autorevoli di dissenso
I capi americani che si trovavano in una posizione adatta per conoscere i fatti, non credevano – sia all’epoca che in seguito – che i bombardamenti atomici fossero necessari per porre termine alla guerra.
Quando il generale Dwight Eisenhower venne informato, alla metà di Luglio del 1945 dal Segretario della Guerra Henry L. Stimson, della decisione di utilizzare la bomba atomica, rimase profondamente turbato. Egli espresse le proprie forti riserve sull’utilizzo della nuova arma nelle sue memorie del 1963, The White House Years: Mandate for Change [Gli anni della Casa Bianca: mandato per il cambiamento], 1953-1956, (pp. 312-313):
“Durante il suo racconto [di Stimson] dei fatti rilevanti, mi era venuto un senso di depressione e così gli espressi i miei gravi dubbi, primo sulla base della mia convinzione che il Giappone era già sconfitto e che sganciare la bomba non era assolutamente necessario, e secondo perché pensavo che il nostro paese dovesse evitare di scioccare l’opinione pubblica mondiale con l’utilizzo di un’arma il cui impiego, pensavo, non era più indispensabile per salvare vite americane. Era mia convinzione che il Giappone stava, proprio in quel momento, cercando qualche scappatoia per arrendersi con una perdita minima della propria “faccia”.”
“I giapponesi erano pronti ad arrendersi e non era necessario colpirli con questa cosa orribile…Odiavo vedere il nostro paese utilizzare per primo tale arma”, disse Eisenhower nel 1963.
Poco dopo il “V-J Day”, la fine della guerra nel Pacifico, il generale Bonnie Fellers riassunse [la questione] in un memorandum per il generale MacArthur: “Né la bomba atomica né l’entrata in guerra dell’Unione Sovietica provocò la resa incondizionata del Giappone. Esso era già sconfitto prima che questi avvenimenti ebbero luogo.”
In modo simile, l’ammiraglio Leahy, capo di stato maggiore dei presidenti Roosevelt e Truman, commentò in seguito:
“La mia opinione è che l’utilizzo dell’arma barbara a Hiroshima e Nagasaki non fu di aiuto materiale nella nostra guerra contro il Giappone…I giapponesi erano già sconfitti e pronti ad arrendersi a causa dell’efficace blocco navale e dei riusciti bombardamenti con armi convenzionali…La mia impressione era che nell’utilizzarla per primi, avevamo adottato il criterio etico proprio dei barbari delle Età Oscure. Non mi era stato insegnato a fare la guerra in quel modo, e le guerre non possono essere vinte distruggendo donne e bambini.”
Se gli Stati Uniti avessero aspettato, disse l’ammiraglio Ernest King, Capo delle Operazioni Navali degli Stati Uniti, “l’efficace blocco navale avrebbe, nel corso del tempo, affamato i giapponesi fino a provocarne la resa per mezzo della mancanza di petrolio, riso, medicinali, e altri beni essenziali.”
Leo Szilard, uno scienziato di nascita ungherese che ebbe un ruolo determinante nello sviluppo della bomba atomica, argomentò contro il suo utilizzo. “Il Giappone era essenzialmente sconfitto”, disse, e “sarebbe stato sbagliato attaccare le sue città con bombe atomiche come se le bombe atomiche fossero state semplicemente una delle armi a disposizione.” In un articolo del 1960 Szilard scrisse: “Se i tedeschi avessero lanciato bombe atomiche su delle città al posto nostro, noi lo avremmo definito un crimine di guerra, e avremmo sentenziato a Norimberga che i tedeschi erano meritevoli di morte per questo crimine, e li avremmo impiccati.”
Il verdetto dell’Indagine sul bombardamento strategico
Dopo aver studiato l’argomento in grande dettaglio, l’Indagine sul Bombardamento Strategico degli Stati Uniti rigettò la nozione che il Giappone si arrese a causa dei bombardamenti atomici. Nel suo autorevole rapporto del 1946, l’Indagine concludeva:
“Le bombe di Hiroshima e Nagasaki non sconfissero il Giappone, né esse – secondo la testimonianza dei capi nemici che posero termine alla guerra – convinsero il Giappone ad accettare la resa incondizionata. L’Imperatore, il Guardasigilli, il Primo Ministro, il Ministro degli Esteri e il Ministro della Marina, avevano deciso già nel Maggio del 1945 che la guerra dovesse essere terminata anche se ciò significava l’accettazione della sconfitta alle condizioni degli Alleati…La missione del governo Suzuki, nominato il 7 Aprile del 1945, era di concludere la pace. Un apparenza di negoziato per condizioni meno onerose della resa incondizionata venne mantenuta per contenere [la reazione degli] elementi dell’esercito e della burocrazia ancora determinati ad una difesa finale in stile Bushido, e forse – aspetto ancora più importante – per ottenere la libertà di costruire una pace con un minimo di pericolo personale e di opposizione interna. Sembra chiaro, tuttavia, che da ultimo i negoziatori volevano la pace, e la pace a qualunque condizione. Questa era la sostanza del consiglio dato a Hirohito dal Jushin a Febbraio, la conclusione dichiarata di Kido in Aprile, la ragione sottostante alla caduta di Koiso in Aprile, la specifica ingiunzione dell’Imperatore a Suzuki all’atto di diventare premier, ingiunzione conosciuta da tutti i membri del suo gabinetto…Negoziati per convincere la Russia a fungere da intermediaria iniziarono nella prima metà di Maggio del 1945. Konoye, l’emissario designato per trattare con i sovietici, dichiarò a quest’Indagine di aver ricevuto istruzioni dirette e segrete dall’Imperatore di assicurare la pace a qualunque prezzo, nonostante la sua durezza…Sembra chiaro che la supremazia dell’aria e il suo sfruttamento successivo fu il fattore principale che determinò la scelta della resa da parte del Giappone e che evitò la necessità di invadere il paese. Basata su un’indagine dettagliata di tutti i fatti e sostenuta dalla testimonianza dei capi giapponesi coinvolti sopravvissuti, è opinione dell’Indagine che certamente prima del 31 Dicembre del 1945 e con tutta probabilità prima del 1 Novembre del 1945 [la data della progettata invasione americana], il Giappone si sarebbe arreso anche se le bombe atomiche non fossero state lanciate, anche se la Russia non fosse entrata in guerra, e anche se nessuna invasione fosse stata prevista o progettata.”
Opinioni degli storici
In uno studio del 1986, lo storico e giornalista Edwin P. Hoynt smascherò il “grande mito, perpetuato per il mondo da persone benintenzionate” che “la bomba atomica provocò la resa del Giappone”. Nel libro Japan’s War: The Great Pacific Conflit (p. 420), egli spiegò:
“Il fatto è che per quanto riguardava i militaristi giapponesi, la bomba atomica era solo un’altra arma. Le due bombe su Hiroshima e Nagasaki furono la ciliegina sulla torta, e non fecero tanto danno quanto i bombardamenti incendiari sulle città giapponesi. La campagna di bombardamenti dei B-29 aveva provocato la distruzione di 3.100.000 abitazioni, lasciando 15 milioni di persone senza casa, e uccidendone un milione. Furono i bombardamenti spietati, e l’intuizione di Hirohito che, se fosse stato necessario al raggiungimento della resa incondizionata, gli Alleati avrebbero distrutto il Giappone completamente – e ucciso ogni giapponese – a persuaderlo di porre termine alla guerra. La bomba atomica è davvero un’arma spaventosa, ma non fu la causa della resa, anche se il mito persiste ancora oggi.”
In un nuovo libro incisivo, The Decision to Drop the Atomic Bomb [La decisione di lanciare la bomba atomica], Praeger, 1996, lo storico D. Wainstock conclude che i bombardamenti non furono solo inutili, ma furono basati su una politica vendicativa che danneggiò in realtà gli interessi americani. Egli scrive (p. 124, p. 132):
“…Dall’Aprile del 1945, i capi del Giappone capirono che la guerra era perduta. Il loro principale impedimento alla resa era l’insistenza degli Stati Uniti sulla resa incondizionata. Essi in particolare avevano bisogno di sapere se gli Stati Uniti avrebbero permesso a Hirohito di rimanere sul trono. Essi temevano che gli Stati Uniti lo avrebbero deposto, processandolo come criminale di guerra, o addirittura giustiziandolo…La resa incondizionata fu una politica di vendetta, e danneggiò l’interesse nazionale americano. Prolungò la guerra sia in Europa che nell’Asia orientale, e aiutò a espandere il potere sovietico in queste aree.”
Il generale Douglas MacArthur, comandante dell’esercito americano nel Pacifico, dichiarò in numerose occasioni prima della sua morte che la bomba atomica fu completamente inutile da un punto di vista militare: “Il mio staff riteneva all’unanimità che il Giappone stava sul punto di crollare e di arrendersi.”
Il generale Curtis LeMay, che aveva iniziato i bombardamenti di precisione della Germania e del Giappone (e che più tardi guidò il Comando Strategico dell’Aria e fu capo di stato maggiore dell’aviazione), lo disse nel modo più conciso: “La bomba atomica non aveva niente a che fare con la fine della guerra.”
[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale può essere consultato all’indirizzo:
http://www.ihr.org/jhr/v16/v16n3p-4_Weber.html
Bravo! Mi complimento per l’ottima idea. Via via che lei trasferirà su questo suo personale blog i suoi contenuti già in «Civium Libertas» io disattiverò i corrispondenti testi. Le sue traduzioni sono un suo patrimonio intellettuale che è giusto resti nella sua piena disponibilità. Faccia pure con calma. In ogni caso io manterrò sempre un link da Civium Libertas sul suo blog: una cortesia che spero lei saprà apprezzare. Io stesso ogni tanto farò visita al suo blog, dove certamente troverò contenuti interessanti.
Con i migliori auguri
Antonio Caracciolo
The aggregate professor and the lesson of fair play!
Mazal tov to the new Blog
professore,
aspetti a complimentarsi. mi sono infatti convinto che aveva ragione moffa su suo conto. l’utente anonimo che sibila parole ebraiche e le fa i complimenti non è un bel trofeo.
complimenti… interessantissimo, soprattutto per chi, come me, queste cose è costretto a trovarle senza la guida di un insegnante realmente interessato alla materia!
perfettamente d’accordo su questa ricostruzione, ne avevo fatta una analogo e l’ha pubblicata sul mio blog in questo articolo
anzi ora l’aggiungo un link a questo ottimo lavoro (o incorporo alcuni spunti tratti da esso)
A integrazione dell'articolo di Mark Weber segnalo anche i seguenti due post apparsi sul blog:
1 – "Un articolo da ricordare: le menzogne di Hiroshima sono le menzogne di oggi":
http://andreacarancini.blogspot.it/2008/09/un-articolo-da-ricordare.html
e "Il giudizio di Gordon Poole su Hiroshima e Nagasaki":
http://andreacarancini.blogspot.it/2012/02/il-giudizio-di-gordon-poole-su.html
Vorrei, se mi permetti, contestare un punto:
“Gli americani sapevano – avendo decifrato diverso tempo prima i codici militari del Giappone –”
A me risulta (come riportato da Stinnet nel suo libro su Pearl Harbour “Il giorno dell’inganno”) che gli USA avessero decifrato i codici Giapponesi da anni.
Prima quello civile, poi quelli militari.
Da prima del 1941.