Di Richard Falk[1]
Relatore Speciale delle Nazioni Unite per i Diritti Umani nei Territori Palestinesi
Per 18 mesi l’intera popolazione di un milione e mezzo di persone di Gaza aveva sperimentato un blocco punitivo imposto da Israele, e una serie di sfide che erano state traumatizzanti per la normalità della vita quotidiana. Un barlume di speranza era emerso circa sei mesi fa, quando una tregua concordata con l’Egitto aveva prodotto un effettivo cessate-il-fuoco che aveva ridotto a zero le vittime israeliane, nonostante i periodici lanci alla frontiera di razzi fatti in casa che cadevano senza danni sul territorio israeliano circostante, e che provocavano indubbiamente insicurezza nella città di confine di Sderot. Durante il cessate-il-fuoco, la leadership di Hamas a Gaza aveva ripetutamente offerto di prolungare la tregua, proponendo anche un periodo di dieci anni, e dichiarando la propria disponibilità a una soluzione politica basata sull’accettazione dei confini israeliani del 1967. Israele ha ignorato queste iniziative diplomatiche e non ha tenuto fede alla propria parte di impegni previsti dal cessate-il-fuoco, che prevedevano alcuni allentamenti del blocco, che aveva imposto a Gaza l’ingresso con il contagocce del cibo, delle medicine, e del carburante.
Israele aveva anche impedito i permessi di uscita agli studenti con borse di studio all’estero, nonché ai giornalisti di Gaza e ad autorevoli rappresentanti di organizzazioni non governative. Nello stesso tempo aveva reso l’ingresso ai giornalisti sempre più difficile, e io stesso sono stato espulso da Israele un paio di settimane fa, quando ho cercato di entrare per eseguire, per conto delle Nazioni Unite, il mio lavoro di monitoraggio del rispetto dei diritti umani nella Palestina occupata, e cioè in Cisgiordania, nella zona est di Gerusalemme, e a Gaza. Chiaramente, prima della crisi attuale, Israele aveva impiegato la propria autorità per impedire agli osservatori di fornire resoconti esatti e veritieri della spaventosa situazione umanitaria, di cui erano già stati documentati gli effetti nefasti sulla salute fisica e mentale della popolazione di Gaza: in particolare la denutrizione tra i bambini e l’assenza di strutture di trattamento per coloro che soffrono di una serie di malattie. Gli attacchi israeliani sono diretti contro una società già in gravi condizioni dopo un blocco mantenuto nei 18 mesi precedenti.
E sempre in relazione al conflitto di fondo, alcuni fatti in relazione con quest’ultima crisi sono oscuri e controversi, sebbene l’opinione pubblica, in particolare quella americana, riceva il 99% delle proprie informazioni filtrato da lenti mediatiche pesantemente filo-israeliane. Ad Hamas viene imputata la rottura della tregua, per la sua presunta indisponibilità a rinnovarla, e per il presunto aumento degli attacchi con i razzi. Ma la realtà è più sfumata. Non c’è stato nessun vero lancio di razzi da Gaza durante il cessate-il-fuoco fino a quando, lo scorso 4 Novembre, Israele non ha lanciato un attacco diretto contro presunti militanti palestinesi, attacco che ha ucciso numerose persone. E’ stato a questo punto che il lancio di razzi da Gaza è stato intensificato. Inoltre è stata Hamas che aveva chiesto in numerosi incontri pubblici di prolungare la tregua, e le sue richieste non sono mai state prese in considerazione – né da un punto di vista formale né, tanto meno, sostanziale – dalla burocrazia israeliana. Oltre a ciò, non è credibile neppure attribuire tutti i razzi a Hamas. A Gaza operano una varietà di gruppi militari indipendenti e alcuni, come la Brigata dei Martiri di al-Aqsa sostenuta da Fatah, sono anti-Hamas, e possono aver lanciato missili per provocare o per giustificare una rappresaglia israeliana. E’ risaputo che quando Fatah, sostenuta dagli Stati Uniti, controllava la struttura di governo di Gaza, non è riuscita a fermare gli attacchi con i razzi, nonostante gli sforzi al riguardo.
Ciò che questo retroterra suggerisce decisamente è che Israele ha intrapreso i propri attacchi devastanti, iniziati il 27 Dicembre scorso, non semplicemente per fermare i razzi, o per rappresaglia, ma anche per una serie di ragioni sottaciute. Era evidente da diverse settimane, prima degli attacchi israeliani, che i leader politici e militari israeliani stavano preparando l’opinione pubblica a operazioni militari su vasta scala contro Hamas. La tempistica degli attacchi sembrava suggerita da una serie di considerazioni: soprattutto dall’interesse dei contendenti politici – il Ministro della Difesa Ehud Barak e il Ministro degli Esteri Tzipi Livni – a dimostrare la propria durezza prima delle elezioni nazionali fissate per Febbraio, ma ora probabilmente rinviate fino alla fine delle operazioni militari. Queste dimostrazioni di forza sono state una caratteristica delle passate campagne elettorali israeliane e, soprattutto in questa occasione, il governo in carica è stato efficacemente sfidato, per i propri presunti fallimenti nel difendere la sicurezza, da un politico notoriamente militarista come Benjamin Netanyahu. A rafforzare queste motivazioni elettorali c’è stata la malcelata pressione da parte dei capi militari israeliani per cogliere l’opportunità, con Gaza, di cancellare i ricordi del proprio fallimento contro Hezbollah nella devastante guerra del Libano del 2006, che aveva macchiato la reputazione di Israele quale potenza militare, e che aveva portato ad una vasta condanna internazionale di Israele per i pesanti bombardamenti degli indifesi villaggi del Libano, per l’uso sproporzionato della forza, e per l’utilizzo estensivo di bombe a grappolo contro zone densamente popolate.
Alcuni rispettati commentatori israeliani di orientamento conservatore vanno oltre. Ad esempio, l’eminente storico Benny Morris, scrivendo sul New York Times pochi giorni fa, ha messo in relazione la campagna di Gaza con una più profonda serie di premonizioni all’interno di Israele, che egli paragona al fosco stato d’animo dell’opinione pubblica che precedette la guerra del 1967, quando Israele si sentiva profondamente minacciata dalle manovre degli arabi presso i propri confini. Morris rimarca che nonostante la recente prosperità israeliana degli ultimi anni, e la relativa sicurezza, diversi fattori hanno spinto Israele ad agire sfacciatamente a Gaza: la percezione del continuo rifiuto del mondo arabo ad accettare l’esistenza di Israele come una realtà irrevocabile, le minacce incendiarie espresse da Mahmoud Ahmadinejad, insieme alla presunta iniziativa dell’Iran di acquistare armi nucleari, la memoria declinante dell’Olocausto unita alla crescente simpatia in Occidente per i guai dei palestinesi, e la radicalizzazione dei movimenti politici ai confini di Israele sotto forma di Hezbollah e di Hamas. In effetti, Morris sostiene che Israele sta cercando, con l’annientamento di Hamas a Gaza, di mandare a tutta la regione il più vasto messaggio che essa non si fermerà davanti a niente pur di difendere le proprie rivendicazioni di sovranità e di sicurezza.
Sono due le conclusioni che emergono: la popolazione di Gaza viene punita duramente per ragioni molto diverse dai razzi e dalle preoccupazioni riguardanti la sicurezza dei confini, ma a quanto pare
per migliorare le prospettive elettorali dei leader in carica, che stanno rischiando la sconfitta, e per avvertire gli altri attori della regione che Israele userà una forza devastante ogni volta che saranno in gioco i propri interessi.
Che una tale catastrofe umanitaria possa accadere con interferenze esterne ai minimi termini mostra anche la debolezza del diritto internazionale e delle Nazioni Unite, come pure le priorità geopolitiche degli attori che contano. Il sostegno passivo del governo degli Stati Uniti verso tutto quello che Israele fa è ancora una volta il fattore cruciale, come fu nel 2006 quando lanciò la propria guerra di aggressione contro il Libano. Quello che è meno evidente è che i principali vicini arabi, l’Egitto, la Giordania, e l’Arabia Saudita, con la loro ostilità estrema verso Hamas, che viene vista come se fosse sostenuta dall’Iran, il loro principale rivale della regione, erano anch’essi desiderosi di farsi da parte mentre Gaza veniva attaccata così brutalmente, addirittura con qualche diplomatico arabo che ha dato la colpa degli attacchi alla mancanza di unità dei palestinesi e al rifiuto di Hamas di accettare la leadership di Mahmoud Abbas, il Presidente dell’Autorità Palestinese.
La popolazione di Gaza è vittima della geopolitica più disumana, che ha prodotto quella che lo stesso Israele chiama una “guerra totale” contro una società essenzialmente indifesa, che manca di qualsiasi risorsa militare ed è completamente vulnerabile agli attacchi israeliani lanciati dai bombardieri F-16 e dagli elicotteri Apache. Questo significa anche che la violazione flagrante del diritto internazionale umanitario, per come è stato fissato dalla Convenzione di Ginevra, viene tranquillamente ignorata, mentre il massacro continua e i corpi si accumulano. Questo significa anche che le Nazioni Unite si sono rivelate ancora una volta impotenti quando i suoi membri principali la privano della volontà politica di proteggere un popolo sottoposto all’uso illegale della forza su vasta scala. Infine, questo significa che la gente può urlare e marciare in tutto il mondo, ma le uccisioni proseguiranno come se niente fosse. Il quadro che emerge da Gaza giorno dopo giorno supplica per un rinnovato impegno in favore del diritto internazionale e dell’autorità della Carta delle Nazioni Unite, a cominciare da qui, negli Stati Uniti, con una nuova leadership che ha promesso un cambiamento ai propri cittadini, incluso un approccio meno militaristico alla leadership diplomatica.
[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://www.huffingtonpost.com/richard-falk/understanding-the-gaza-ca_b_154777.html
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